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Saving Mr. Banks

Regia di John Lee Hancock vedi scheda film

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La recensione su Saving Mr. Banks

di EightAndHalf
7 stelle

Bisogna fare sempre i conti con la propria infanzia. Saving Mr. Banks è un rincorrersi continuo di realtà sognante, di realtà ricordate e di realtà dannatamente presenti. Dal giocattolone targato Disney che si presentava (e si conferma) pubblicità del grande casa di produzione hollywoodiana che ha cambiato la storia del cinema di animazione non ci si aspettava una simile capacità narrativa, che evoca i grandi classici dichiarando la propria diretta conseguenzialità da essi e al contempo rielaborandone i contenuti che diventano il contenuto stesso di questo lungometraggio (un candido esempio di metacinema); ci si aspettava un lezioso omaggio senz'anima che trattasse delle grandi capacità produttive (magari anche senza macchia) del grandissimo mecenate Walt senza alcun tipo di problematicità e senza nessuna novità. E l'inizio del film sembrerebbe confermare queste ipotesi, con la voce fuori campo di un qualcuno che sembra narrare una favola e una bambina colta in un momento di tenero affetto con il padre Colin Farrell. Lo stesso alternarsi di passato e di presente, che si ripropone ciclicamente per tutta la durata del lungometraggio, all'inizio sembra già stanco e poco interessato, risaputo. Che il tema si sarebbe focalizzato sull'importanza dell'immaginazione e del sogno, era qualcosa che si poteva tenere in conto, proprio in funzione di quella definizione che spesso si è data alla grande fabbrica Disney, appunto una fabbrica di sogni. Il personaggio di Emma Thompson, poi, che sembrava voler imporre la propria simpatia e nient'altro, appariva come uno scadente tentativo di dare un po' di brio a una storia già scritta nella mente degli spettatori.
Ma la pars destruens si ferma qui, nel carattere prevenuto di chi - come chi scrive - era andato con poche pretese al cinema, per constatare quali fossero le triste conclusioni di un film tirato a lucido e pronto da servire al grande pubblico. Ma fare i conti con un capitolo fondamentale del cinema Disney, ovvero Mary Poppins, non ci si aspettava potesse rivelarsi così coinvolgente, così impetuoso, così attento, alla fine, al personaggio della protagonista, che lentamente si spoglia dei suoi numerosissimi vezzi per diventare davvero un essere umano di cui ricostruiamo, con sagace accuratezza, il passato, il periodo dell'infanzia in cui più era stretto il rapporto con il padre e più si sono mostrate ai suoi occhi tutte le brutture della vita che hanno dato, necessariamente, fine ad ogni innocente e infantile sogno vitalizzante. Così come la protagonista, che porta sulle sue spalle ricordi devastanti in cui la facoltà immaginativa è stata irrimediabilmente corrotta (secondo un passaggio narrativo che ha davvero del geniale), lentamente riprende coscienza della sua inconscia dipendenza da quello stesso passato, per "sbloccare" i suoi modi tormentati e pedissequamente insicuri, così lo spettatore comincia a vedere con maggiore spessore quei comportamenti, quei gesti, quelle risibili paranoie o quelle estenuanti lamentele, che pure non davano minimamente l'idea che celassero un vero cuore attivo e pulsante (benché lo si potesse prevedere, ma giusto in termini narrativi - il che non assicurava la costruzione di un vero indimenticabile personaggio). In sintesi, lo spettatore comincia a prendere sul serio la pellicola, e lo fa volenti o nolenti, grazie al carisma registico di John Lee Hancock (la sua è una tipica regia invisibile con rari ed efficaci guizzi) e alle qualità delle scenografie e della recitazione di tutti i personaggi (anche, e soprattutto, se Tom Hanks non lo si sopporta). Perché Saving Mr. Banks vuole essere un'edulcorata seduta psicanalitica che guarda all'origine del processo creativo e al contraddittorio e poco immediato rapporto fra fantasia e realtà, tra stretta utilità e puro intrattenimento, gioia e dolore, sfogo e frustrazione. 
Mr. Banks è l'affarista padre dei due bambini di Mary Poppins, un padre che rivela fin troppo raramente il suo affetto nei confronti dei figli e che infine si esibisce in un ballo amorevole e affettuoso solo quando, verso il finale, ripara l'aquilone dei due bambini. E questo è il finale del film di Mary Poppins, perché il libro sceglie strade diverse, che, anche non conoscendo, lo spettatore può ben immaginarsi, visto il carattere spocchioso e l'approccio realistico dell'autrice, che detesta i sogni e i balocchi dei film d'animazione e impone che il film sia realizzato con personaggi in carne ed ossa. Ma come, a quel punto ci si chiede, ha potuto una persona così tanto fredda, l'incarnazione stessa della pruderie e dell'anaffettività, creare la storia di una tata che salva dei bambini da un'infanzia infelice? "Ma perché - dice lei - Mary Poppins scende con il suo ombrello per salvare i bambini?". Mentre i dubbi comunque permangono, poiché il libro è diventato in ogni caso un best seller per bambini e adulti, e ha paradossalmente concesso la libertà di un sogno poco possibile se non tramite la letteratura, il film decide di indagare le motivazioni profonde di questa improvvisa capacità creativa che ha attivato la fantasia di una persona tanto arida e infastidita - magari anche giustamente - da quei cartoni che tanto sono poco istruttivi per i bambini. E così si dipanano i ricordi, di quella bambina che tanto felicemente viveva sotto l'alone protettivo di un padre "sognatore", e di quel padre che tanto sembrava ricolmo di affetto e di letizia e che in realtà nascondeva sotto la giacca il suo caro whiskey, medicinale nei gravi momenti di amarezza. I due momenti di vita si rispondono e si corrispondono, lentamente vanno prendendo forma l'uno sulla base dell'altro, fino a fondersi (grazie al montaggio mozzafiato) in una sequenza che pure finisce per essere il momento catartico e purificatore, il momento in cui si riscopre il cuore della frigida zitella P.L. Travers. Forse perché, dopotutto, è riuscita a salvare quel padre che tanto rischiava di deluderla e tanto lei non riuscì a salvare nonostante gli avesse concesso (più cosciente di quanto possa sembrare), con un semplice gesto, la possibilità di rifugiarsi in quel suo sogno/illusione da adulto, quella sua medicina che è poi una bottiglia di whiskey. Quella sola immagine, quella piccola sequenza, rivela il carattere sottilmente terrificante e anche spaventosamente forte in cui il sogno ha subito una corruzione e si è trasformato in un'illusione mortifera e letale, sebbene appoggiato dal sogno e dal desiderio puro di una bambina. Come salvare una situazione del genere, come alla fine salvare una vita? 
"Far rivivere con l'immaginazione", non semplicemente nella memoria, ma nei cuori, nei costumi, negli affetti, costruire l'integrità di un uomo difettoso, che ha smesso di essere un dio ed è diventato un relitto umano sputasangue, per di più assolutamente ingiustificabile. Sottilmente sono queste le parole finali di un Walt Disney che pure si rivela un uomo di altissima sensibilità ma che poi si fa problemi se la scrittrice è presente alla prima del suo film, affogato com'è nella compravendita della sua immaginazione in pillole (non letale, però, come una bottiglia di whiskey); e il rapporto fra i due protagonisti non ha una fine idillica e tanto semplice, perché quando Miss Travers si commuove, e ci commuoviamo anche noi che assistiamo addirittura alla salvazione di un sogno di padre che come molti altri ideali ingenui ci è stato strappato via dalla coscienza della corruzione, è in grado di dire che non sta piangendo perché finalmente il padre è salvo, ma perché "odia l'animazione dei pinguini". Che sia vero o meno, in quel momento, poco importa: è un aggraziato colpo alla sensibilità dello spettatore, di fronte al quale si può ridere e di fronte al quale, paradossalmente, tutto si capovolge e la commozione che vorrebbe essere pura diventa contestualizzata, reale, da prendere sul serio senza nessuna dispotica melensaggine.
Dunque stiamo attenti a questo Saving Mr. Banks, perché tra la sensazione della semplice commediola e il fastidio del carattere propagandistico (se vogliamo, assai ben argomentato), propone un discorso fin troppo suscettibile di banalizzazione ma in realtà profondo, sincero, fantasioso tanto quanto reale, perché il futuro non c'è e c'è solo l'oggi, e la fiducia nel sogno, per quanto possa esserci stato detto tante volte, molti che si impongono con aridi cuori non l'hanno mai (ri)scoperta.

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