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Il presagio

Regia di Richard Donner vedi scheda film

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La recensione su Il presagio

di supadany
8 stelle

Prima grande occasione al cinema per Richard Donner, per lui il trampolino di lancio di una carriera poi costellata di successi, che arrivava da anni di televisione, progetto costellato da difficoltà iniziali (abbandonato dalla Warner, ripreso con budget contenuto dalla 20th Fox) che si sono trasformate in un’opportunità pienamente sfruttata grazie anche al coinvolgimento, spesso in corsa, di artisti oltremodo capaci in tutti i campi.

Se il tema demoniaco nel frattempo è stato fin troppo svilito da tante pellicole analoghe, non ultima il remake di John Moore del 2006, questo titolo rimane un caposaldo del genere ed apprezzabile anche già “solo” per la sua mirabile costruzione e resa cinematografica.

Quando suo figlio nasce morto, Robert Thorn (Gregory Peck) adotta da un sacerdote un neonato senza dire nulla dell’accaduto a sua moglie Kathie (Lee Remick).

Anni dopo, una serie di disgrazie e fatti inquietanti lo portano a pensare che il bambino sia l’anticristo e lunghe ricerche, accompagnato dal fotografo Jennings (David Warner), lo portano a pensare di doverlo eliminare.

Ma le forze del male sono pronte ad ostacolarlo in ogni modo e lui stesso si ritrova privo di certezze.   

 

 

Thriller del mistero più che horror, comunque nel caso sicuramente non fine a se stesso, “Omen”, in origine intitolato “The antichrist”, è un’opera ancora oggi capace di colpire se non per il genere di storia sicuramente per la sua realizzazione.

Realizzato tra Gran Bretagna e Italia, dove furono necessari accordi con la mafia per poter girare (non solo economici, il figlio del padrino interpreta un tassinaro), si avvale di una serie di morti cruente, ma anche di numerosi incidenti, di notevole effetto (a partire dalla caduta dalla balconata di Lee Remick o la lastra di vetro che recide di netto una testa) che prevedono insiemi di tecniche di ripresa che le rendono indimenticabili (ed a seguire copiate).

Per amplificare lo sgomento ecco poi salire in cattedra l’importanza degli sguardi (vedi il triplice gioco della foto sopra), a volte sfruttando il dettaglio al montaggio, tanto che perfino i cani risultano espressivi, con alcune scene rischiose, quanto problematiche da architettare, come quella dei babbuini; per farli inferocire, come poi vediamo nel film, il regista nascose il capobranco nell’auto che attraversava la loro area, il che scatenò la loro reazione procurando un effettivo pericolo che scorgiamo senza difficoltà negli occhi degli interpreti.

Indubbiamente fu altrettanto importante la presenza di Gregory Peck come protagonista; l’attore aveva appena perso un figlio (suicida, ma lui era convinto si trattasse di omicidio), il che rende ancora più lancinanti le decisioni che deve prendere il suo personaggio nei confronti del bambino, in più il fatto che si tratti di un diplomatico abituato alle difficoltà rende ancora più travagliata la sua “discesa” in una verità complicata da accettare ed incomunicabile.

Valide anche le prove di Lee Remick, una madre che non sente suo il figlio (sentimento sottilmente trasmesso dall’attrice), David Warner, un fotografo intraprendente e di Billie Whitelaw, la governante mandata dal male i cui atteggiamenti non possono che suscitare preoccupazione.

A completare la panoramica delle eccellenze, la fotografia di Gilbert Taylor (in seguito a questo successo chiamato sempre dalla 20th Fox per “Guerre stellari” (1977)) e soprattutto le musiche disturbanti ideate da Jerry Goldsmith, con tanto di tema allucinatorio su canto gregoriano, che gli valsero l’Oscar dopo essere stato già plurinominato.

Opera quindi che vanta una rara completezza d’insieme, da vedere considerando quando è stata realizzata (arrivare “prima” deve contare), ma comunque seminale già “solo” per la caparbia ed intuitiva elaborazione della messa in scena con un finale che si porta appresso  l’impossibilità di salvezza per l’umanità e con essa tutto l’immaginabile carico di turbamento.

Nel suo filone, indispensabile.

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