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Cose nostre - Malavita

Regia di Luc Besson vedi scheda film

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La recensione su Cose nostre - Malavita

di M Valdemar
6 stelle

Scaltro, Besson: st(ereot)ipa in una strepitante dimensione fumettistica la vita di una famiglia italoamericana estirpata dell’identità e dal proprio territorio a causa dell’”infamata” del padre mafioso.
Le coordinante geografiche ambientano la storia in una anonima bruttina località della Normandia (prevedibili gli scontri con la grandeur francese); quelle narrative descrivono con sommo (auto)godimento le piccole grandi vicende del quotidiano. Stroppiate, però, nell’ottica schizzata di chi la violenza, il dolore (provocato) e i sotterfugi è abituato a consumarne in gran quantità come il burro di noccioline.
Difficile credere a quello che avviene: la moglie allegra ma non troppo (la divina Michelle Pfeiffer) che incendia un supermercato per vendicarsi della scortesia del personale, i figli (il “denirico” John D’Leo e l’angelica Dianna Agron) che socializzano a scuola a forza di imprese microcriminali e azioni da maniaci; e poi tutti - che siano studenti e insegnanti o il vicino di casa, l’idraulico, il sindaco, i compaesani accorsi al barbecue - che conoscono e parlano l’inglese. Ma si sa: lo schermo ingrassa i soggetti, esasperandone forme e contorni (psicologici, innanzitutto); e così lo scherno regna senza che si scada (troppo) nello scherzo.
Meglio affidarsi, allora, alle memorie del pentito Bob De Niro che batte su una polverosa macchina da scrivere regole, rigurgiti del passato e i dieci motivi per cui è un bravo ragazzo, e che batte con qualsiasi oggetto gli capiti a tiro (in ordine di preferenza la mazza da baseball, come Al Capone in The Untouchables …) chiunque cerca di fregarlo, nessuno escluso.
Sempre che riesca a tenere a bada quel pitbull rognoso con la faccia di Tommy Lee Jones (o fors’è il contrario?), agente federale sempre in servizio.
Sì, bello scrutare il vecchio Bob che si gode la compagnia del cane Malavita o mentre un sottile luccichio negli occhi, un familiarissimo ghigno, rimandano alle gloriosa gesta del tempo che fu.
Infatti le (auto)citazioni si sprecano. In sperticate lodi, vedasi l’ode tributata al capolavoro scorsesiano [col buon Martin produttore esecutivo della pellicola: il cortocircuito è elegantemente servito] Quei bravi ragazzi: il Nostro si commuove, si riconosce («che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster», le parole di Henry Hill/Ray Liotta scolpite nel Mito), infine compone l’elogio del crimine da vero poeta. Dopotutto, nato Manzoni, ora di cognome fa Blake. Applausi a scena aperta dal pubblico ignaro di un minuscolo cineforum (e pensare che si aspettavano Qualcuno verrà di Minnelli).
Ma il tempo della nostalgia (e della celebrazione) è finito: il finale incombe, tra la prole in fuga (il maschio per mettersi in “attività” dopo che quelle sue poco lecite sono state scoperte a scuola; lei che si strugge per amore e vorrebbe raggiungere il desiderato) e lo sbarco dei mafiosi - dall’aspetto che più mafioso non si può - venuti per regolare i conti e incassare la taglia da venti milioni di dollari (mandante Don Luchese … che dalla cella di una prigione legge Repubblica e dirige gli “affari”).
In pochi minuti la dimensione deflagra, l’atmosfera vira al nero d’una notte sanguinante, e i colpi d’arma da fuoco riecheggiano potenti nel vorticare dell’azione che non tradisce la sua natura di divertita e divertente, ottusa improbabilità.
Poi le cose - loro e nostre - volgono, fortunatamente, ineluttabilmente, a favore della famiglia.
Pronta per le prossime mete e identità, per riscrivere le folli ordinarie pagine/strisce di una nuova (mala)vita.
 

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