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Il prefetto di ferro

Regia di Pasquale Squitieri vedi scheda film

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La recensione su Il prefetto di ferro

di lamettrie
9 stelle

Uno splendido film contro la mafia e il fascismo insieme. Oltre che di grande livello tecnico, checché se ne dica contro Squitieri, vanta il merito raro di indipendenza, originalità e importanza storica nel denunciare un nesso mai abbastanza riconosciuto: l’alleanza fra mafia e fascismo, molto più forte di quanto si sia voluto far credere. Tale ignoranza, non casuale, è germinata nel puro stile della classe dirigente italiana: i ladri ricchi e potenti premiati sempre da impunità e successo.

«I mafiosi prendono la tessera», nonostante la retorica del fascismo che combatte la mafia. Questo è il pregio maggiore del film, mostrare la strumentalizzazione propagandistica della lotta contro la mafia da parte del fascismo: per rafforzare la mafia, in realtà, al fine del proprio consenso (al sud solo i ricchi, e perciò i mafiosi, hanno tutto il potere), e per soffocarne la parte meno controllabile per una dittatura, il brigantaggio, quella che almeno un certo merito ce l’aveva, quello di dar voce al giustificato storico malcontento popolare. Infatti fascisti e mafiosi, di concerto, fermano Mori quando, coerentemente, passa al piano superiore: «Abbiamo liberato dai briganti; ora lo dobbiamo fare dai galantuomini…ma c’è da arrestare mezza Sicilia… non dobbiamo avere riguardo, né in basso né in alto».«Possiamo provare la connessione tra l’autorità fascista e la mafia locale». «Il governo (fascista) preferisce la grancassa dei giornali, più fumo e meno sostanza; teme che si arrivi sino a loro».

Infatti cercano di ucciderlo: la scena dell’attentato è stupenda. Tutti spariscono nel palazzo statale: quando è il momento, sono tutti complici. Mori sa che i mandanti del suo tentato omicidio sono i mafiosi e il potere fascista. Il ras Galli è coperto dal fascismo, e autore di un grande furto e di un crimine contro la collettività; fa anche uccidere il prestanome coinvolto, un poveraccio. La retorica di Galli è quella di tutto il fascismo: con l’apparenza di virilità cerca di coprire la sua ingiustizia sociale, che spalleggia solo i ricchi, e la propria illegalità. Lo stesso Galli è quello che prende il posto di Mori, vittima del classico “promoveatur ut amoveatur”.

Il film ha anche il merito di non canonizzare Mori, mostrandone anche i limiti. Costui non si ribella al fascismo né lo denuncia: gravi colpe. Che commette non tanto per opportunismo: infatti lui non lecca mai i piedi ai fascisti; fa anzi capire la sua lontananza e il suo disprezzo, con gesti pubblici che gli compromettono la carriera. Piuttosto non prende la strada giusta dell’opposizione per eccesso di senso del dovere, di colui che non ragiona tanto sugli ordini e sul perché fa le cose, ma è realmente e soltanto un fanatico della legge e della sua applicazione. «Lo stato deve fare paura più della mafia», è il suo credo, comunque benemerito.

«La mafia è una puttana, che si struscia su chiunque ha il potere»: verissimo. Il clero poi la benedice, e un importante prete di Palermo è al centro dello sfruttamento dei contadini, ben protetto dalla mafia stessa. Splendida è poi la scena dell’intimidazione contro i sacrosanti scioperi, fatti contro tale sfruttamento secolare, che è il vero nocciolo della mafia: su ciò c’era perfetta identità di veduta col fascismo, per la repressione di ogni resistenza sindacale, come del comunismo.

Corretta pure la lettura delle cause del predominio mafioso: «Interferenze politiche, clientelismo, povertà, analfabetismo, malaria, latifondismo». Tutte cause che solo la politica può e deve cambiare; ma lo può fare solo se l’opinione pubblica è di un livello decente, altrimenti anche la politica da essa scelta sarà indecente.

Ottima la ricostruzione dell’ambiente giudiziario, uno dei grandi topos del nostro cinema. Regna l’assoluzione per insufficienza di prove. Il processo vien fatto sotto minaccia. Poi c’è la stranezza di un processo che funziona: dopo 20 anni finalmente almeno un colpevole viene riconosciuto.

Eccellente, e dipinta come non mai, è la descrizione dell’omertà. «Le vittime si trasformano in complici; qui nessuno è innocente». La resistenza allo stato, tradizionale secolare, è tenacissima. Le donne sono vestite come delle arabe, tutte a favore dell’illegalità, ignoranti fino al midollo (evidentemente anche per colpa di una società mafiosa e maschilista). Buttano via coperte, medicinali, libri portate da parte dello stato: non capiscono nulla di ciò che gioverebbe loro, ma nella loro ignorante colpevolezza ricordano che il male più profondo è la miseria.

Infine, è grande cinema. Scene spettacolari, ottima recitazione di Gemma (splendidamente doppiato da Rinaldi), ma anche di Rabal, Cardinale e Satta Flores. Ottime la fotografia di Ippoliti, il montaggio veloce, la musica di Morricone, i costumi, ma soprattutto sceneggiatura e soggetto di Petacco, lo storico, che narra vicende realmente accadute.

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