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Nymphomaniac

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Nymphomaniac

di ROTOTOM
9 stelle

Nymphomaniac (vol. 1)

 

Preceduto da una corte di denigratori per partito preso, bigotti militanti, esacerbati di professione sobillati da una campagna stampa lupesca, volutamente mirata a fare cascare l’attenzione sul tabù dell’orgasmo generosamente ritratto nell’ampia cartellonistica ricca di star dal volto deformato dall’estasi, arriva nelle sale Nymphomaniac  di Lars von Trier.  Film sforbiciato delle parti più hard e diviso, vista la durata totale di quattro ore, in due volumi.

 

Un uomo  soccorre in un vicolo una ragazza svenuta. E’ ferita, forse a causa di un’aggressione così decide di portarla a casa propria per assisterla. Al suo risveglio tra i due si instaura una sorta di complicità per cui la donna racconta all’uomo della propria vita partendo da quando era bambina. Gli rivela di essere una ninfomane e durante una lunga notte, i racconti della sua vita sessuale e dei suoi rapporti con gli uomini si fanno via via sempre più intensi e drammatici.

“Sono una persona orribile”. Inizia così la confessione di Joe.

 

Stacy Martin, Shia LaBeouf

Nymphomaniac (2013): Stacy Martin, Shia LaBeouf

                                                                                                                         

Coito, ergo sum.

 

Lars von Trier con Nymphomaniac  mette in scena ancora una volta e stavolta a carte completamente scoperte, lo scontro tra Natura e Ragione, fulcro principale di tutto il suo cinema. In questo contesto è uno dei pochi autori capaci di creare personaggi femminili complessi e profondi mai accomodati su facili  cliché. Il ruolo del maschio è secondario, esibito e meccanico. Il ruolo della donna è invece stratificato, umorale e vitale. Bess, Selma, Grace, la donna senza nome di Anthicrist,  Justine, sono le donne di von Trier. Joe è solo l’ultima, che racchiude in sé tutte le altre come suggerisce la parentesi uterina nel titolo del film che è di fatto una dichiarazione di intenti. Un vuoto,  fisico ed esistenziale, da riempire.

 

Sul titolo martella Führe mich, canzone industrial-metal dei Rammstein.
Joe giace letteralmente in un lurido labirinto,  manifestazione fisica di uno stato di profonda prostrazione psichica. Le immagini sessuali che Joe evoca per l’uomo giocano invece sulla condizione di sofferenza derivate dalla condizione di ninfomania di cui ella si dichiara affetta in un misto di autocommiserazione e provocazione. Von Trier cesella sull’ambiguità del racconto di Joe la carnalità delle immagini, rese fertili e visibili dalla fantasia dell’uomo. Entrambi sono puri nella loro essenza: istintiva e lubrica la prima, quanto razionale e represso il secondo.  


Nymphomaniac  riesce a rimanere in equilibrio  su una giustificazione psicologica e intellettuale approfondita, sorretta da una messa in scena agile – il ritmo è molto elevato -  e nitida – la necessità che tutto sia visibile senza altre interpretazioni che non siano quelle di von Trier stesso - che come sintassi prende a prestito la commedia e suoi stilemi.
 La commedia si ibrida così  proprio al mood del cinema porno nel contesto delle situazioni nelle quali l’aspetto sessuale si manifesta. Affiora quindi una divertita ironia da parte di Von Trier, qualcosa che nei suoi film precedenti era stata annullata dal nichilismo più nero. Le situazioni sono effettivamente da film porno ma poi il momento clou è demistificato, espresso dai corpi ma mai compromesso nel  dettaglio morboso. O meglio: si vede il dettaglio anatomico, ma non essendo interesse del regista provocare l’eccitazione, il coito non eccita. Il controllo sulla storia è intellettuale prima che fisico.

Mirabile per ironia proprio la perdita della verginità di Joe descritta nel suo racconto, quando appena quindicenne con la gonnellina e i codini – i codini sono un espediente classico del cinema porcello per trasformare una sfatta quarantenne in un’adolescente sbarazzina -  si dona al meccanico bisunto Jerome (Shia LaBeouf).  Un classico. Di perle come questa ce ne sono tante, più o meno divertite ma poi, nello scorrere del film, ogni situazione rivela una disperata componente drammatica. Negli incontri casuali di Joe alla ricerca dell’orgasmo perduto – pulsione di morte che prevede in questo caso un’impossibile rinascita - l’uomo è sempre pronto e disponibile, idraulicamente attivo a soddisfar(si)e l’amante occasionale. L’uomo è meccanismo e Joe ha un talento naturale nel comprenderne il funzionamento. Talento che nel secondo capitolo del film avrà un’importanza centrale nell’economia della storia.

 

La Joe narrante è interpretata da Charlotte Gainsbourg mentre quella giovane, svincolata da qualsiasi verosimiglianza – la verosimiglianza non è mai stato un problema per von Trier -   è una spigolosa e audace  Stacy Martin, esordiente sullo schermo. Il soccorritore di Joe è Stellan Skarsgård che di nome fa Seligman.  Il racconto di Joe è per capitoli titolati con le iniziali dei suoi amanti. Lo spoglio ricovero sembra una cella monacale, in esso la selvaggia Joe racconta al razionale Seligman l’avventura della propria vita in cerca di una ipotetica assoluzione. Va così in scena una confessione / esorcismo reciproco  tra metafore ardite sulla caccia all’uomo e la pesca alla mosca la cui lenza si impiglia nel simbolismo spinto e la sezione aurea di Fibonacci. Numeri e carne, l’urgenza del corpo contrapposta alla razionalizzazione culturale dell’uomo. Ogni esperienza di Joe viene ricondotta da Seligman ad una classificazione intellettuale, ogni pregiudizio di Seligman smontato dalla vitalità esplosiva di Joe. E poi ancora Bach e la polifonia che si accorda a Joe per la coralità dei rapporti con i quali soddisfa la propria tensione. Un passato di delirio dell’amato padre e l’odio per la madre, secca e incapace di affetto. Il manicomio teatro del delirio del padre, è accostato alla tenebrosa casa degli Usher, di Edgar Allan Poe. 

 

Atteso e temuto come “film porno”, quello che si rivela agli occhi dello spettatore è in realtà una lucida – e ludica -  discesa nella psicologia frantumata di una donna incapace di amare, insensibile  e inappagabile. Impermeabile al mondo,  Joe cerca di sentirsi viva aprendo i propri orifizi al mondo intero. La vagina è il centro di gravità attorno alla quale la sua esistenza si avvita senza un fine e ad essa viene sacrificato tutto.
Umori, degradazione, cazzi e sperma. Secrezioni di una disperazione torrentizia impastata nella pallida fotografia color carne. Il grugno della Gainsbourg  fa a cazzotti con l’iconografia maschile della burrosa ninfomane allegra e scopaiola. Il pacato Seligman rinchiuso nella sua cella, analizza senza sentire nulla. Nymphomaniac  è anch’esso polifonia, per come Von Trier usa ogni strumento narrativo  - colore, bianco e nero, musica metal e sinfonica, flashback, flash forward, voice over - per ricamare senza scadere nel becero o nel banale, una delle psicologie più complesse e contraddittorie che si siano mai viste sullo schermo.  La natura sessuale della ragazza è smontata e ricomposta in un patchwork intellettuale dove cultura e orgasmo, religione e colpa, amore e disprezzo si fondono per definire la profondità tombale nella quale sprofonda l’animo umano quando corpo e mente si necrotizzano su posizioni inconciliabili.  Nymphomaniac è un film bellissimo, coraggioso e intelligente. Colto ma contagiato dalla vitale sfrontatezza dello sberleffo. Il cinema di von Trier è, al netto della storia, una costante rielaborazione del concetto stesso di fare cinema. Destabilizza ogni certezza, smonta qualsiasi stereotipo, riscrive le regole per poi disattenderle. Nymphomaniac è un’orgia di cinema prima che di corpi e forse rappresenta la summa della capacità evocativa del regista.
 Il sospetto che qualcosa di diverso accada nel secondo volume è forte. Più di un sospetto. Una certezza. Ma se ne parla la prossima volta.

“Non sento nulla”. Il primo volume finisce così, durante un coito, con la disperata frase di Joe.

 

 

Nymphomaniac (vol. 2)

 

Continua la confessione di Joe a casa del soccorritore Seligman.  Il racconto si sofferma su un periodo oscuro della vita di Joe.

 

Teaser poster

Nymphomaniac (2013): Teaser poster

Cogito, ergo cum

 

Discesa nel Maelstrom. Prendo a prestito il titolo di un racconto di Edgar Allan Poe, autore già citato nel primo volume del film, per affrontare la discesa di Joe all’interno delle propria ossessione. Il Maelstrom gorgo-vagina che inghiotte inesorabilmente ogni marinaio.

Orrido sprofondato nell’ignoto alimentato da una tensione che fonde la repulsione  dell’annientamento e l’attrazione per la successiva rinascita. La vertigine del dolore e la a meccanica del piacere spingono Joe ad annullarsi nel masochismo.

C’è la carne. E la carne ha dei buchi. I buchi vanno riempiti. Di lingue, cazzi, dita. Cucchiai, a volte. Voragini lubriche che prendono il sopravvento su tutto, vortici gravitazionali che inghiottono per placare quel vuoto emotivo e esistenziale alla base dell’ossessione stessa.

 

Il secondo volume di Nymphomaniac è molto più cupo, anche visivamente, rispetto al primo. Il sesso è più che mai disturbante espressione di disperazione. Ormai la ragazzina curiosa del passato è già, nei racconti di Joe la donna matura rimasta orfana di un pezzo di se stessa.

Causa – o grazie a - la Grande Depressione che ha colpito il regista, il registro drammatico nel film di von Trier è esploso in un’epifania di forma e contenuto, simbolismi e nichilismo esistenziale. Si potrebbe ribadire il fatto – ed è un fatto a tutti gli effetti, non una percezione personale – di come il sesso esplicito sia stato sdoganato da tempo nel cinema d’autore.  A differenza del porno, ovvero della necrotizzazione dell’amore fisico la cui  parte per il tutto sostituisce di fatto ogni empatia con l’essere umano riconducendo l’atto ad una ritmica meccanica del piacere (parliamo della comune concezione del porno di massa, quello reso quotidiano e domestico di Youporn) l’esposizione esplicita della sessualità nel cinema d’autore è invece manifestazione della natura psichica del personaggio, secondaria rispetto alla sua funzione, quasi mai messa in scena con intenti pruriginosi quanto piuttosto indicatori di uno stato di prostrazione del personaggio. L’unico limite del sesso in questo contesto è una depotenziamento della sua funzione a favore di una giustificazione autoriale, laddove la drammaticità fa “prendere sul serio” il sesso, invece di mostrarne i suoi effetti liberatori. Godo, quindi soffro.

 

Nymphomaniac nel suo complesso soffre di questo limite  ma al contempo lo ribalta in una visione blasfema del mito della Passione,  secondo una concezione cattolica del piacere vissuta come senso di colpa. Cent’anni di cinema nulla possono contro due millenni di repressione Di questo dovremmo godere e soffrire ancora per un po’. 

Da questo punto di vista il film di von Trier, abilmente spacciato da una campagna marketing – quella si – spregiudicata, come trasgressivo e oltraggioso, trova nella messa in scena che rifiuta il voyeurismo gratuito e nella manipolazione cerebrale della confessione di Joe, una condizione profondamene morale.

 

Soffro, quindi godo. Il calvario masochista di Joe ha assonanze cristologiche nel mito della Passione prima dell’ascesa al  cielo. Unendo riferimenti alla sacralità cattolica ad elementi pagani, von Trier tratta della discesa della donna nella profondità della propria psiche dalla quale risorgerà tramite l’azzeramento della propria personalità.
E’ la spaventosa bellezza dell’annientamento. Il buco da cui risorge l’istinto di vita solo dopo aver provato la piccola morte (petite mort)  dell’orgasmo liberatorio durante una sessione di bondage  masochista.  K (Jamie Bell), idealmente alter ego del regista, è padrone assoluto del corpo e della psiche della donna che ad esso ha sacrificato tutto. Figlio compreso, con annessa autocitazione della sequenza iniziale di Antichrist.

Nel gorgo del Maelstrom ci sta tutto il cinema di Lars von Trier ma a differenza del primo volume ormai l’ironia si è stemperata in una grigia devianza psicotica che si libera dei riferimenti al cinema hard per accostarsi al dramma bergmaniano, riconoscibile nei fitti scambi verbali tra Joe e Seligman.

Poi la proiezione della psiche di Joe sullo schermo bianco della mente di Seligman abdica alla frammentazione metaforica del racconto per adagiarsi sulla convenzione dei fatti ed in questo contesto il film accusa un’ evidente flessione. Forse per riuscire a riannodare in un finale tutti le linee narrative aperte, la parte centrale si ibrida al thriller  - con il cammeo di un laido Willem Dafoe - così da fornire una giustificazione all’immagine iniziale di Joe riversa nel lurido vicolo in cui giaceva. La meccanica dei sentimenti della quale la sessualità è l’espressione più potente è materia trasparente per Joe che la usa come piede di porco per forzare le debolezze altrui. Debolezza per debolezza, forse è proprio questo l’unico momento di cedimento di un film tenuto sempre in stretto controllo.

 

Preludio alla chiusura circolare che si riallaccia e spiega l’immagine iniziale ma si distacca dall’intensità della storia fino ad allora narrata.  E’ una parte meccanica, funzionale all’avanzamento della storia e della successiva rinascita di Joe dalla profondità nella quale era sepolta. Tramite l’aiuto di Seligman, allo spuntare del sole, Joe è una persona nuova, più forte. La chiusura del film è però, di nuovo, irrorata dalla linfa  di un colpo di coda magistrale. L’utopia non potava realizzarsi e quando la Ragione tenta di avere la meglio sulla Natura, quest’ultima si ribella. Sberleffo.  Chiusura magnifica per un film nel suo complesso molto bello, falsissimo ma più profondo di quanto ci si aspettasse, Chi conosce Von Trier sa che egli è  molto più bravo di chi lo denigra. Più sensibile. Più intelligente. E un po’ ci marcia in questa sua costante  rappresentazione del falso d’autore che si eleva a metafora di sentimenti veri. Come il suo von nobiliare, farlocco. Ma il falso Lars von Trier suona meglio del vero Lars Trier. E’ questo che conta.

 

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