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Wolverine - L'immortale

Regia di James Mangold vedi scheda film

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La recensione su Wolverine - L'immortale

di lussemburgo
6 stelle

Dopo Origins, il prequel che raccontava la nascita e le prime avventure di Logan, Wolverine – l’immortale si riallaccia filologicamente al filone maggioritario degli X-Men ponendosi come sequel della trilogia cinematografica e anticipazione della confluenza tra le versioni classiche e “originarie” dei supereroi Marvel (sotto copyright Fox) con il prossimo Days of future past, che viene introdotto in coda al film. Se X-Men, le origini: Wolverine si perdeva introducendo una selva di mutanti che annacquava e disperdeva la vicenda della genesi di Wolverine, il suo successore si concentra quasi esclusivamente sul canadese errante inserendo alcuni nemici, una storia d’amore e un complotto economico che ne fanno una versione mutante e irsuta di un Bond d’antan, con gli artigli a sostituire la Walter PPK e il whisky al posto del vodka martini. James Mangold si era già cimentato nel para-Bond con il divertito Innocenti bugie e vanta la conoscenza di Jackman sin dai paradossi temporali di Kate & Leopold; i titoli della sua filmografia lo definiscono come un regista adattabile, che alterna film riusciti come Copland ad altri dall’esito poco convincente, senza nessuna esibizione di una precisa volontà stilistica. Anche in Wolverine la regia pare rifuggire da ogni visibilità per lasciar parlare la trama e, soprattutto, sembra non sfruttare affatto la terza dimensione acutizzando la frenesia dell’azione con riprese mosse da macchina a mano, artificio ben poco gratificante con la stereoscopia, oppure non si avvale della profondità di campo con messe a fuoco successive tra primo piano e sfondo in una stessa inquadratura. La regia tenta però la via della soggettiva del protagonista, di cui vediamo ossessioni e deflagrazioni oniriche del senso di colpa per la morte di Jean Grey, la sensazione di ottundimento per l’avvelenamento provocato da Viper e il salto temporale con ellisse narrativa già sistematicamente sperimentata in Innocenti bugie, qui con effetto di drammatizzazione straniante al contrario dell’esasperazione comica sfruttata dal precedente film. L’alterazione quasi lisergica della percezione sembrerebbe qui una cifra ricorrente, a cui si aggiunge lo spaesamento provocato dalla società giapponese, sfruttata per spunti di alleggerimento, e la sorpresa dell’azione fulminea dei guerrieri ninja per creare una generale sensazione di confusione e smarrimento che sembra possedere il protagonista sin dalla fine del doppio prologo, in parte ambientato durante la Seconda Guerra mondiale e che termina con l’avvio della vicenda preminente e il trasferimento in Giappone. Il disorientamento di Wolverine è confermato anche nell’epilogo, con la rivelazione del deus ex machina della vicenda e l’ultimo confronto con la nemesi dell’eroe in cui un esoscheletro in adamantio affronta uno scheletro rivestito dello stesso indistruttibile metallo, come in una lotta tra avverse versioni di sé ed eco della guerra fratricida che animava già il primo capitolo delle avventure di Logan. In effetti Wolverine è un personaggio sanguigno e disadattato, solitario e malinconico in perenne contrasto con i suoi simili e con la propria natura, odiata e sfruttata in ugual misura. È però la stessa trama a dissipare il potenziale del soggetto evidenziandone soprattutto la parte avventurosa, con la complicità di yakuza e ninja ad arricchire il sapore nipponico, e limando la componente amorosa, che diventava tragico melò nel prototipo a fumetti, per incatenarsi ad una vicenda funesta di eredità contesa con piccola aggiunta di ingrediente mutante ad intorbidare la situazione. E la traduzione dello smarrimento del protagonista spesso si traduce nel riuso del primo piano di Jackman, la cui mimica facciale trasforma stupore e ironia in rugosità vagamente allibita. Ponte personale per il salto nella nuova pellicola plurale, affollata da diverse versioni temporali dei medesimi x-men tornati nelle mani di Bryan Singer, Wolverine – l’immortale non mantiene le promesse che il titolo italiano annunciava (il titolo originale è, laconicamente, The Wolverine) masticando il dolore per l’immutabilità nel tempo in poche frasi senza appoggio scenico. La solitudine e la sofferenza di una virtuale immortalità dovuta al fattore di guarigione sono elementi dati per scontati, mai approfonditi, retaggio delle pellicole e tavole passate che non sembrano necessitare ulteriore esplicitazione, pur costituendo il fondamento narrativo di tutta l’azione del film e la vita del personaggio.

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