Regia di Anaïs Barbeau-Lavalette vedi scheda film
Un film sull'incolmabile distanza tra vivere la vita tra i palestinesi e vivere la vita dei palestinesi.
Un'operatrice umanitaria che lavora nei territori occupati cerca di vivere la sua vita tra amici israeliani e palestinesi; si fa coinvolgere affettivamente nella vita di una famiglia palestinese, pur continuando a cercare con ordinaria disperazione di vivere al di là del muro dei momenti spensierati.
Si sforza di continuare così, anche se gli eventi la mettono di fronte a drammi sempre più grandi. Di sicuro è impossile per i palestinesi che frequenta, fino a venire scacciata da loro come una puttana. Cosa che effettivamente è. Per lei è un confuso desiderio di vivere tra gli oppressi, per loro diventa solo carità pelosa.
Mi ha ricordato i "Sommersi e salvati" di Primo Levi. Là c'era la consapevolezza dell'autore di non riuscire a raccontare l'irracontabile. Quì c'è la consapevolezza sempre disperatamente negata dalla protagonista che è impossibile vivere un po' dentro e un po' fuori insieme a chi invece è costretto a vivere sempre dentro.
Una missione impossibile, quella di raccontare. Ma comunque un tentativo lodevole. Al di là dell'onnipresente muro di separazione, dove le cloache discariche di rifiuti si trasformano in luoghi per i bambini palestinesi per giocare e per i meno bambini per rovistare tra gli avanzi degli israeliani; dove le vite di tutte le famiglie sono scandite dalle storie di ordinaria e straordinaria sopraffazione criminale degli israeliani.
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