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The Act of Killing - L'atto di uccidere

Regia di Joshua Oppenheimer, Christine Cynn, Anonimo vedi scheda film

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La recensione su The Act of Killing - L'atto di uccidere

di Texano98
9 stelle

1965. Tutto il mondo stava esplodendo: dopo il trionfo della prima rivoluzione comunista nel continente americano e la Crisi dei missili, gli Stati Uniti iniziavano il loro trasvolo verso la tragedia del Vietnam; proprio mentre gli equilibri del mondo erano così in bilico, nel Pacifico stava l’Indonesia di Sukarno, capo popolo costretto a muoversi dentro un paese che era polveriera, arrivando perfino ad includere alcuni ministri comunisti all’interno del proprio governo. Il Partito Comunista Indonesiano (PKI, messo fuori legge nel 1966 e mai più riabilitato) contava tre milioni di militanti, il terzo più grande partito comunista del mondo dopo il PCUS e quello cinese. Dopo anni difficili, lungo cui il colpo di stato reazionario era nell’aria senza però mai verificarsi, l’egemonia social-comunista venne spezzata nel ’65 con il golpe di Suharto -egemonia, quella del PKI, tagliata alla radice nel più empirico dei modi: col massacro di interi settori della popolazione. Nel giro di dodici mesi oltre un milione di comunisti vennero uccisi in massa, e si stima che altrettanti presunti oppositori al regime siano stati fatti sparire nel nulla, fantasmi non tornati indietro da vivi e mai riapparsi nella memoria  – né in Indonesia né qui ad Occidente, parte del mondo che conserva un inconfessabile legame con tale massacro che può apparirci cosí distante.
L’esordiente Joshua Oppenheimer, insomma, ha scelto di irrompere sulla scena documentaristica mondiale trattando uno degli argomenti più roventi e sottaciuti di sempre. Cadere era facile, il rischio del didascalismo e della retorica si annidavano dietro l’angolo – sia pure come contrappeso naturale a quei crimini per cui non ci sarà mai giustizia – eppure il giovane regista assottiglia la voce, quasi non si sente, sceglie di lasciare il microfono ai carnefici, si limita a fare panoramiche col treppiedi e a stringere l’inquadratura sui primi piani soltanto quando serve; osserva i piccoli dubbi che di tanto in tanto si affacciano sugli occhi dei protagonisti, al tempo stesso cerca di registrare la realtà dell’Indonesia odierna – alienanti gli scorci di questo paese così forzatamente occidentalizzato, momenti di quiete che Oppenheimer ci concede fra la confessione di un crimine e l’altro, mostrando fast food, gioiellerie e tangenziali al crepuscolo dove regnano silenzio e vento. Ecco quindi che il regista americano espatriato in Europa comincia il discorso dal principio ma soltanto tramite veloci didascalie, fornendoci un contesto di riferimento, lasciando poi in disparte Suharto e le menti dietro il massacro per concentrarsi invece sugli ignavi carnefici.
L’anziano Anwar, star pluriomicida del documentario, era e si è conservato un anti-comunista di ferro, vanta di aver ucciso oltre mille “rossi” durante il genocidio, quest’esile figura incarna alla perfezione la “banalità del male”: da criminaluccio che vendeva biglietti fuori dai cinema, nel giro di poche ore è entrato nei mattatoi di stato, improvvisando processi farsa e stringendo cavi al collo delle vittime. (“All’inizio li bastonavamo a morte, ma c’era troppo sangue…”) Del cinema amava Hollywood: Al Pacino il suo attore preferito, le canzoni di Elvis, invece, ciò che Anwar canticchiava nella sua seconda vita, dirigendosi ogni giorno verso il nuovo “lavoro” pagato a peso di anime; quando Oppenheimer gli offre l’opportunità di ricostruire le dinamiche di alcuni omicidi i suoi occhi si riempiono di gioia: vola dietro la cinepresa, si diverte con il dolly, controlla i giornalieri, sorride – con il ponte dentale che fa clack e lui ne è così felice – corregge gli attori, insegnandogli il modo in cui devo muoversi per uccidere più realisticamente.
A guardar bene, l’Indonesia restituita da questo documentario sembra un’isola fantasma, una stazione di Solaris a contatto con le depravazioni della fisica: l’iconico pesce gigante (quello presente nella locandina,) davanti cui danzano ballerine spensierate, è emblema di una nazione che ha rinunciato (scegliendo di farlo) al momento del giudizio, che ha perso il tempo, obliando la storia invece di indagarla e redimere tutto quel sangue versato: esattamente come questo pesce assurto a monumento, il quale non dovrebbe esiste ma c’è, che fuor d’acqua dovrebbe decomporsi e che invece mantiene sempre le stesse squame e la medesima maschera. Al di là dell’ottima prova registica e cinematografica, oltre all’abilità di Oppenheimer nel gestire i suoi killers senza mai turbare il loro discorrere, colpisce l’odierna Pancasila Youth, organizzazione paramilitare nostalgica del regime di Suharto, con all’attivo milioni di membri (e il beneplacito di governo e  ministri che di tanto in tanto passano di lì per un comizio), che nei suoi partecipatissimi convegni al limite del surreale ricorda i milioni di comunisti uccisi, non per tributargli memoria, ma per festeggiarne la scomparsa; ordinariamente invitati in trasmissioni televisive, questi simpatici assassini potenziali (si dichiarano pronti a ripetere il “capolavoro del ’65”,) segnano un unicum all’interno delle formazioni neototalitarie: non sminuiscono i morti ma anzi fanno a gara per alzarne il numero: “abbiamo ucciso due milioni e mezzo di comunisti” esulta il capo, e la telegiornalista che li ospita, compiaciuta, sorride. Il genocidio è incrostato sui protagonisti e la loro progenie, sembra perpetuarsi sopra il silenzio, sopra l’ignoranza e la violenta prevaricazione ideologica.
Ma il genocidio non è soltanto il passato dell’Indonesia, Oppenheimer ci pone una domanda chiara: quanto dista quest’isola fantasma dalle nostre case? Irrompe in scena la cattiva coscienza dell’Occidente. Suharto è un Pinochet ante litteram: gli Stati Uniti danno immediato supporto diplomatico al nuovo regime e sostegno tattico al suo genocidio, è stato dimostrato come l’ambasciatore statunitense a Giacarta si dilettasse compilando elenchi di persone da arrestare. Ma la favola degli “yankee imperialisti” è troppo comoda per noi: la verità è che dopo innumerevoli salti nel vuoto l’intero mondo occidentale ha voltato le spalle al popolo indonesiano; davanti all’opportunità di stabilire un baluardo occidentalista e filo-capitalista nel lontano Oriente in subbuglio, i leader europei non hanno trovato difficile dimenticarsi del loro amore platonico per la democrazia – giova ricordare, esemplificando la questione, come la classe dirigente della Germania Occidentale fosse formata, a livello politico ed economico, da molti aderenti e finanziatori del fu Partito nazionalsocialista, – permettendo che in Indonesia si scatenasse la repressione che qui da noi non era possibile attuare in maniera altrettanto spudorata; tanto chi avrebbe mai potuto sentire quelle grida che provenivano da così lontano? Nel 1972 il Presidente della Repubblica italiana Giovanni Leone, cattolico, insignì il generale Suharto della medaglia da Cavaliere di Gran croce.
L’atto di uccidere parla all’uomo, a come il tempo e lo spazio possano arbitrariamente, quasi per gioco, trasformarlo in bestia; questo film riflette sulla possibilità di fuggire dai propri crimini soltanto portandoli in scena e rivivendoli in prima persona – c’è anche il Cinema, quindi, sotto forma di catarsi, – getta luce su uno spaccato storico di cui non si legge, che non si studia e che non viene fatto studiare – purtroppo esistono ancora genocidi più o meno importanti, – un pezzo di storia del cinema che ci mette davanti ad uno specchio, mostrandoci come sia facile vedere nell’altro i crimini e l’odio che in realtà covano per primi dentro di noi. E’ bello che sia proprio un regista occidentale a parlare di tutto questo.

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