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Storie di famiglia

Regia di Sarah Polley vedi scheda film

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La recensione su Storie di famiglia

di davidestanzione
4 stelle

Il documentario familiare, insieme a quello musicale, sembra essere il genere di "non fiction" più gettonato alla Mostra di Venezia quest'anno.
Spesso e volentieri si spendono fiumi di inchiostro a discutere della misura in cui questi progetti siano più o meno autoreferenziali e accattivanti per un pubblico di qualsiasi estrazione, e il più delle volte si giunge alla conclusione che quasi sempre trattasi di una scelta narrativa decisamente ombelicale, una specie di grossolano macguffin per aggirare i rischi e le eventuali paludi di una narrazione d'altro tipo, anche rimanendo all'interno delle corde stesse del cinema documentario.

A voler malignare di meno sulla qualità effimera di questo tipo di operazione in generale e mettendo da parte una buona dose di aprioristici sospetti, va comunque considerato che ci sono stati registi in grado di imbastire intorno alle proprie vicende familiari film di ottima fattura, al confine tra la fiction e la documentaristica, sempre in bilico tra lo scavo umano e psicologico sui proprio consanguinei e una personale, persino sfrontata volontà di risalire alla proprie origini, caratteriali e, perché no, istintuali.

Come non pensare a un regista che è presente anch'egli quest'anno alla Mostra, ovvero a Marco Bellocchio e al suo fenomenale dittico "Sorelle" e "Sorelle Mai". Non due semplici film "familiari" ma una mini-epopea che evidenzia tare e contrassegni, elementi comuni dei singoli membri del nucleo e dissonanze profonde, in un continuo gioco metafilmico di sottilissima e rara raffinatezza.
Il film di Sarah Polley presentato oggi alle Giornate degli Autori in Sala Darsena, invece, pare molto più vicino alle connotazioni cui accennavamo all'inizio. Alla sua opera prima l'adorabile interprete di "Exotica", "Dawn of the dead" e "eXistenZ" ritrae la propria famiglia con piglio risoluto e sicurezza nei toni ma anche scarso approfondimento e inesistente densità, risultando soltanto "leggerina" nei momenti migliori, quasi mai profonda e solo qualche volta leggermente e gradevolmente comica, come nell'esilarante finale che per altro riprende uno dei momenti interlocutori più simpatici dell'intero film.
I ricordi emergono molteplici attraverso filmati sdruciti e svariati tuffi nel passato, ma l'interesse artistico per l'opera è ai minimi storici e anche solo una parvenza di compattezza di sguardo è del tutto assente.
Il film scivola via sonnacchioso non supportato neanche da un montaggio accomodante e poco brioso, laddove invece l'inizio e i titoli di testa, con tanto di "Skinny Love" di Bon Iver a fare da tessuto sonoro di sottofondo, avevano lasciato presagire ben altro.
Come raramente succede, il film in fondo il suo limite maggiore lo evidenzia smaccatamente esso stesso proprio al suo interno, offrendo una frase che forse ne è la sintesi e anche l'analisi più stringata e lucida che sia possibile darne, a qualsiasi latitudine: "A chi vuoi che importi della mia stupida famiglia?".

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