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Muffa

Regia di Ali Aydin vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Muffa

di miss brown
8 stelle

E' una cosa contro natura, nessuno dovrebbe sopravvivere ai propri figli.

Quante volte, nella realtà o più spesso, per fortuna, in un film abbiamo sentito questa frase? E' quello che è capitato a Basri, 60enne manovale delle Ferrovie Turche. Ma lui suo figlio Seyfi non ha potuto nemmeno seppellirlo: studente universitario avverso al regime, 18 anni prima è stato arrestato ed è svanito. E da 18 anni Basri, testardamente, scrive ogni mese due lettere, una alla Questura e una al Ministero dell'Interno, e chiede spiegazioni, le pretende. Sua moglie è morta di crepacuore sei anni dopo la sparizione e lui è rimasto da solo col suo dolore, aggrappato non tanto alla speranza di vedere un giorno il figlio tornare a casa, quanto almeno di ritrovarne il corpo, per poterlo seppellire accanto alla madre. E' addetto al controllo dei binari in un piccolo centro dell'Anatolia, trascorre intere giornate in solitudine, con l'unica compagnia di una radio portatile, prezioso regalo del figlio. Non ha amici, i compaesani e i compagni di lavoro lo compiangono, alcuni addirittura lo deridono. Il più feroce di tutti è Gemil, un bullo ubriacone. Per la sua caparbia insistenza Basri è stato perseguitato, più volte arrestato e picchiato dalla Polizia, messo in isolamento; ora però c'è Murat, il nuovo commissario, che gli promette di fare delle ricerche. Del tutto casualmente, nel corso di lavori stradali, viene trovata la fossa comune che contiene fra gli altri i resti di Seyfi: sepolto suo figlio, Basri si trova senza più uno scopo nella vita.

Il 32enne Ali Aydin ha vinto con KÜF il Premio per la Migliore Opera Prima al 69° Festival di Venezia: sceneggiatore oltre che regista, racconta di uno dei tanti “desaparecidos” turchi, arrestati e mai ritornati fra il 1990 e il '96. Dal 2003, ancora studente, assisteva a Istanbul ogni settimana alla manifestazione dolente e silenziosa di un gruppo di donne, le chiamavano le madri del sabato. Così è nato il film, gli è cresciuto dentro con lentezza, per anni. Nel 2010 l'ha scritto tutto d'un fiato ed è riuscito a completarlo in pochi mesi. Nel realizzarlo ha fatto alcune scelte registiche personali e importanti: quelle che colpiscono subito sono l'esiguità dei dialoghi e la totale mancanza di colonna musicale, sostituita dal suono in presa diretta basato sui rumori di fondo, a tratti amplificati o addirittura esasperati, a volte del tutto assenti, per meglio trasmettere allo spettatore la forte sensazione di disagio del protagonista. Analogo scopo nella tecnica di ripresa, con l'uso predominante della camera fissa su tutte le inquadrature di primi e primissimi piani e con campi lunghi fissi a sostituire le panoramiche. E i vasti, ariosi e luminosi esterni dell'Anatolia centrale fanno da contrasto con i tristi, squallidi interni di una Istanbul notturna, livida e claustrofobica.

Ali Aydin è giovane e si guadagna lo stipendio facendo l'aiuto-regista di pubblicità e soap opera, ma dimostra già una mano eccellente nella direzione degli attori. In più ha avuto a disposizione tre protagonisti perfetti: su tutti Ercan Kesal (in C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA di Nuri Bilge Ceylan era il sindaco del paesino) fa del suo Basri un capolavoro di sobrietà, riuscendo ad esprimerne col solo sguardo la naturale mitezza e l'ira repressa, la solitudine e la dignità, la fierezza e la disperazione. Il fascinoso Muhammet Uzuner (anche lui in C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA, era il medico legale) dà al commissario Murat la necessaria, inizialmente brutale, autorevolezza seguita poi, man mano che approfondisce il caso, da un'inaspettata pietà e gentilezza. Tansu Biçer dà al viscido Cemil, senza strafare, la giusta dose di lurida crudeltà e ferina violenza.

In definitiva un film “civile”, non facile ma doveroso; ha qualche difetto e lungaggine del tutto perdonabile, ma è sicuramente interessante e man mano sempre più coinvolgente. Da vedere.

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