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Disconnect

Regia di Henry Alex Rubin vedi scheda film

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La recensione su Disconnect

di lorenzodg
4 stelle

Disconnect” (id., 2012) è il primo lungometraggio del regista Henry Alex Rubin dopo aver girato il documentario “Murderball” (2005) che racconta le paraolimpiadi del 2004  (e lo sport di cui il titolo).
    Nell’azione quotidiana di molti, moltissimi (ancora non di tutti) di essere davanti ad una ‘tavola’ scura che si può accendere, collegare, sentire e vedere, arriva la smania di farsi notare, aprirsi, mettersi a nudo e chattare con uno/a sconosciuto/a (prima o poi il destino fa coincidere segni mai incontrati e incontri mai voluti). Il film di Rubin mantiene una patina minimalista e allegorica (in una tragedia preannunciata) in una storia di (quasi) ordinaria amministrazioni e di complicazioni (umane) che s’avvedono del nemico senza conoscere nulla e nessuno. Ciò che uno ritiene di fare e ciò che uno ritiene di dire sono complementari talmente bene che il contatto umano spaventa e s’allunga imperterrito in un’ombra prolungata mentre lo adegno e la foga del gioco assurdo (per chi gravita e riceve) sradica ogni livore e tutto ciò che è bellezza di contatto fisico dal sapore antico.
    I personaggi che circolano nella storia sembrano ‘fotocopie’ di schematizzazioni semplicistiche o di avveduti idioti che scaricano ‘materiale’ per frustrazioni non sempre individuate (e quantomeno non ben scritte per meglio capire e capirci): ragazzi adolescenti in vena di scherzi, donna sola e perdente, giornalista che cerca il successo e capricciosi di ogni tipo dietro ad adulti di dubbia fattura umanizzata. E’ il mondo truce a troce che si interseca, si scontra e si evolve tra parole scritte e parlate, video e foto, password e nomi segreti in una società che si lascia sfuggire ogni barlume di intelligenza e qualsiasi spazio di riflessione. D’altronde con chi dialogare, con chi stringere amicizia, con chi sfogarsi e con chi avere notizie da prima pagina? Tutte domande di realtà virtuali e di speranze distrutte.
    Il film cerca di capire qualcosa e i vari qualcuno di cui chi guarda si identifica un po’ a fatica (anzi molto difficilmente) e dopo una prima parte noiosa e alquanto lenta la storia scommette sui vari incastri degli individui, sui mariti e padri cattivi, su figli chiusi e demotivati, sulla noia di persone ingenerose (almeno il luogo comune è ‘ben confezionato’…) fino a rendiconti prevedibili, incontri telefonati con scritture ‘web’ che inondano lo schermo tra colloqui tristi, fintamente oltre e modestamente comuni (troppo per incidere e calcare il tutto). La didascalia continua del ‘chat’ perenne tra alcuni (la moglie sola, i ragazzi persi e il padre fintamente avveduto) e altri appare noiosetta, languida e mestamente fuori-cinema: è certo che rappresentare la ‘connessione’ sul grande schermo appare impresa ardua e se poi il racconto è pilotato, il set non appare completamente congruo e soprattutto la regia lascia un po’ a desiderare il gioco (al rovescio) è fatto. E la ‘disconnessione’ riguarda lo spettatore (disciolto e stolto) che dipana la sua mente (appiattita) per capire a quando il ‘colpo da teatro’ per riaccendere lo schema floscio e prevedibile(issimo).
    E ciò che stupisce che ognuno recita da se la sua parte anche quando gli incontri avvengono realmente (prima o poi gli uomini e i propri figli, le madri senza figli, i personaggi minori e senza piano, una provincia assente ed esente da un gioco fin troppo facile) senza un accendersi delle situazioni e il finale al ‘ralenty’ se vuole appianare o distruggere tutto rasenta un ammonimento verso il ‘facile-ridicolo’ e il ‘senso-della-colpa’ che forse si vuole espiare. Ma purtroppo ad ogni inquadratura (e sempre prima che parta un colpo di fucile o di martello qualsiasi…o uno schiaffo liberatorio…) c’è la ‘predicozza’ costante che non porta a nulla e il racconto di quello che vorrebbe dire si perde in tracce amorfe (e quasi insulse). E così l’incipit di uno scritto su un film qualsiasi (tipo questo) svanisce e resta vuoto di effetto: così lo spettatore (in ‘piattume’ di pensiero) esce dalla sala (con uno sparuto e minimo pubblico presente) rincuorato di nulla e infastidito da un moralismo facile-facile con uno schema diligentemente-fasullo- E l’ultissima inquadratura fa da paria ad un film leggeremente ‘pomposo’ nel dirci tutto, caratterizzarci il problema, risolverlo o quasi con abbracci a iosa mentre il fratellino non aspettava altro che la sorella e il suo bacio. Svegliarsi? E’ l’incubo che s’abbatte sulla chiosa irriverente di un ‘thriller’ fiacco e di ‘un’inchiesta’ fallace e di ‘un giornalismo’ patinato sulla levatura morale del film. Paragoni con altre pellicole? Meglio tacere. Un’aspirina da prendersi per uscire da drammi semplici(ovattati).
    Le interpretazioni diventano ‘assiomatiche’ per ciò che il film vuole dire (e male) nel ragazzo Kyle (Max Thiriot)  che si vende in chat, nei bulletti Jason e Ben (Colin Ford e Jonah Bobo) che si divertono come possono, nel padre Rich (Jason Bateman) pieno di se, nell’altro Mike (Frank Grillo) troppo introverso, nella giornalista Nina (Andrea Riseborough) che vuole brindare al successo, dello sfigato e della sorella che gli dorme a fianco… fino alla colore della fotografia sinuosa (con interni pieni di capricci e porte semiaperte per poter spiare).
    La regia di Henry Alex Rubin è alquanto priva di mordente e poco incisiva al contesto narrativo.
    Voto: 5.

 

 

 

 

 

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