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Adieu au langage - Addio al linguaggio

Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film

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La recensione su Adieu au langage - Addio al linguaggio

di EightAndHalf
10 stelle

Premessa doverosa: chi scrive non ha avuto modo di visionare il film in 3D così come l'autore l'ha previsto. 

 

locandina

Adieu au langage - Addio al linguaggio (2014): locandina

 

 

<<Le più grandi invenzioni mai realizzate, lo zero e l’infinito>>.

<<No, il sesso e la morte>>.

 

 

Adieu au langage è la paura, il tribolamento, l’ansia di una dissoluzione, una ricerca, il “vivere una fine” (difficile, ma possibile), è il “riprendere una stanza con una foresta vicina”, è il fluire del pensiero e il pensiero del fluire stesso, un incastro (im)perfetto di scatole cinesi, una successione di capitoli slegati e irregolari in cui l’ermetismo è pura coerenza con il mondo attuale. Il passato genera malore (malheur historique), perché anticipa la crisi dell’uomo moderno e delle contraddizioni di tutte le sue sovrastrutture. Il futuro è una potenziale perdita di senso dell’intero creato (se mai senso ne ha avuto) e delle cose più semplici, perdita generata dall’abbandono del linguaggio che tutto ha creato e tutto ha reso possibile, persino Dio (<<la gente dice di non voler farlo più esistere, ma poi non lo fa>>). Il presente è invece una brutta bestia, quella che la società in generale e lo spettacolo in particolare vanno uccidendo per bloccare la mente e il pensare degli uomini (“non ci sono perché”, dice l’SS al bambino che nelle camere a gas chiede il motivo della sua prossima morte alla madre). Siamo dunque incastrati in un’aporìa spazio-temporale, bloccati da una storia che declama la pace con le armi (la dichiarazione degli alleati a Posdam, <<faremo la pace come abbiamo fatto la guerra>>) e da una realtà presente che si fa sempre più stratificata, spezzettata, “schizofrenizzata” dall’infinità di occhietti vispi che guardano il mondo e possono filmarlo generando immagini (<<voilà, je fait  l’image>>).

 

 

Adieu au langage sarebbe come un’onda che inonda e ingloba ciò che contemporaneamente si può pensare, creare e distruggere nel mondo in un solo istante, se non fosse che Godard lo fa attraversare da un fil rouge che si rende evidente solo insistendo, e costringendo la nostra mente a uno sforzo da cui il cinema e la cultura in genere di recente ci allontanano. Lo sforzo di Godard, vero maestro della Settima Arte, è di farci pensare, e di farci capire che solo con il pensiero potremo arrivare a una forma di comunicazione: ed è un gesto che ci concede libertà assoluta.

 

 

Come cercare di comunicare di nuovo, in un mondo in cui veniamo intellettualmente castrati (gli agenti dentro la macchina) e la tecnologia ci rende tutto facile? Come sentire e magari amare l’altra persona se non riusciamo a conoscere il mondo e noi stessi? Che fine fa la filosofia (“un essere, il cuore della cosa, l’ente che domanda di se stesso, il presupporre un essere altro da sé”) se la realtà viene progressivamente appiattita da delle pennellate nere che fanno tabula rasa di qualsiasi tipo di ricerca? Per forza Adieu au langage ci appare come irrisolto, incompleto, in continuo divenire, senza forma, senza grazia: una ricerca, nel suo farsi, non ha forma compiuta, e Godard cerca mentre dirige, prova a creare davvero l’immagine, sperimenta il presente e l’esistere direttamente con i propri occhi, cercando nel frattempo di riflettere sulle sue stesse azioni, rimanendo invischiato nelle sue difficoltà così come l’uomo è invischiato in questo inesistente presente. Non c’è più utopia blochiana, si può sperare solo nelle contraddizioni popperiane della “negazione costruttiva”, pensare ciò che non si pensa, dipingere ciò che non si vede, e vedere se “ciò che non è” può “essere” in qualche modo.

 

 

Cosa succede, oggi, nel nostro deturpato immaginario presente? La capacità immaginativa, l’essere delle cose, di tante cose, vengono abbandonati per lasciare posto alla accidia di fronte alla possibilità della sperimentazione, alla pigrizia. Cos’ha, l’immagine, oggi? L’immagine, il pensiero, la filosofia, rischiano di non esistere più, e di essere insabbiate dalla “facile” realtà che ci permette (con Google) di travisare il senso “naturale” del nostro pollice opponibile, e trasformarlo in ostinato appiattimento del pensiero (il volto di Solzenicyn sull’iPhone, il riflesso di Isabelle sullo schermo, il pollice che lentamente avanza: si sta travisando il senso, si sta facendo un errore imperdonabile).

 

 

Il caos di Adieu au langage è atto rivoluzionario, è il nichilismo giovanile dei Demoni di Dostoevskij, è il “comprendere l’amore” di Levinas, è il contestualizzare la filosofia nella storia di Ezra Pound. Adieu au langage è un urlo, è il guaito di un cane e il lamento di un bambino, è un informe mostro che chiede di comunicare, e che vorrebbe essere capito. E’ incomunicabilità anche quella fra genere umano e cultura, non solo fra uomini e uomini. Godard saluta il linguaggio, saluta il faccia a faccia degli uomini che creò il linguaggio, e a posteriori creò tutto il resto. Come nei film del passato, trasmessi costantemente in una tv raramente guardata, Godard compiange la relazione fra gli uomini, degli uomini con se stessi, degli uomini con il mondo. L’uomo del presente si è rinchiuso e non vuole più parlare, vuole stare solo, anche se non capisce bene perché, e implora il mondo perché possa “fare qualcosa per farlo parlare”. Ma quando ci si ritrova in uno sguardo, dice una voce fuori campo, è difficile rimanere soli, perché non si è più due. Il non comunicare nasce da una concreta paura di dissolversi nell’altro: preferiamo dissolverci nell’etere, nel nulla del flusso cinematico, nelle immagini vuote, snaturanti e snaturate, nella disperazione. Vogliamo stare soli, non vogliamo più parlare. Solo che qualcosa ci rende ancora più insoddisfatti, e ci rispinge nel labirinto delle nostre incomprensioni.

 

Zoé Bruneau

Adieu au langage - Addio al linguaggio (2014): Zoé Bruneau

 

Lo sguardo ricollegherebbe gli esseri umani fra di loro. Lo sguardo riuscirebbe a ricollegarci con il mondo (“attraverso lo sguardo di un cane, che è l’unico secondo Darwin ad amare gli uomini più di quanto ami se stesso, si può conoscere il mondo”, e a dirlo era Rilke). Lo sguardo riuscirebbe forse a ricollegarci con noi stessi. E potrebbe compiere una simile missione una reinterpretazione del "nuovo" linguaggio, quello espresso da tutti i filtri ottici e modalità di ripresa che utilizza il regista francese in questa sua ultima opera, e che simulano la "finta creatività" e la "finta comunicazione" di un presente appiattito e bestiale?

 

 

Godard immagina il suo film diviso in due parti fondamentali, che però si ripetono almeno una volta in nuove circostanze. La prima parte è La Natura, con una donna e un uomo. La donna comincia a “pensare” al passato, e dei misteriosi uomini in giacca e cravatta la fermano, benché a lei non freghi nulla. Si sente uno sparo, inizia una guerra. Un uomo segue la donna: “sono ai tuoi ordini”. La seconda parte è La Metafora, con un’altra donna e un altro uomo. La donna riceve insegnamenti da un maestro guardando le immagini pittoriche di Nicolas De Stael, neanche a lei frega nulla che la fermino o meno, e prosegue, finché non finisce anche lei in una gabbia, e un altro uomo le comunica “sono ai tuoi ordini”. Tra entrambe le coppie (che ad una prima visione si scambiano, si confondono, non si riescono ben a ordinare nella mente dello spettatore, vista la grande somiglianza) si crea un rapporto di sola “tentata” comunicazione, i partner provano a parlarsi a vicenda ma, come da premessa, non riescono mai a guardarsi in faccia. Si osservano, si toccano, vagano nudi per casa, ma non si fanno nulla, sono persi nel vuoto e nel loro pensiero, sono come fuggitivi dal mondo.

 

Héloise Godet

Adieu au langage - Addio al linguaggio (2014): Héloise Godet

 

La coppia della Natura introduce le tematiche, la coppia della Metafora sembra approfondirle; la coppia della Natura comincia ad accudire un cane e ad accoglierlo in casa, per poi lasciarlo e dichiarare di “voler andare a trovare Frankenstein”; la coppia della Metafora accoglie con sé il cane senza riuscire a comprendere cosa davvero vogliono reciprocamente. Il cane guarda il procedere (dis)umano delle due coppie: la prima è divisa tra un uomo che cerca nelle funzioni corporali e nei fatti naturali l’uguaglianza che lega gli esseri umani (accostando la statua del Pensatore di Rodin alla posizione seduta del defecare), e una donna che invece odia la finta felicità di chi si illude e vuole morire; la seconda coppia vede lei “odiare i personaggi”, lui sperare in qualcosa di nuovo, forse dei figli (al che lei: “un cane!”). Le due coppie si spiegano a vicenda, si fanno portatrici del significato di coppia, di opposizione di antipodi, di contrasto fra opposti: Adieu au langage può anche essere letto come un’enorme armonia di contrari (immagini chiare contro immagini scure, immagini naturali “snaturate” dai colori, vita e morte, zero e infinito, maschio e femmina), colta nel panta rhei del fiume che più volte il cane contempla ma che non riesce ad attraversare: dunque l’inconoscibilità del reale, e l’inconoscibilità di noi stessi.

 

 

Entrambe le coppie fanno dei viaggi, si raccontano storie, guardano le strade (sotto la pioggia, sotto la neve, con il bel tempo) dalle loro macchine, si confrontano sulle reciproche esperienze (ricorrente l’immagine del fiume, che conosce se stesso meglio di quanto noi conosciamo lui), sembrano voler creare quel “concetto” che la voce femminile iniziale non riesce a creare. Ad ogni inizio di capitolo vediamo una nave che arriva o parte dalla banchina di un molo, come a dire che il viaggio è costante arrivo  e partenza. Molte immagini rievocano il mondo come una foresta (non di simboli, alla Baudelaire, piuttosto di esseri umani, come la intendevano i vecchi indiani Apache della tribù di Chikawa), altre sottolineano l’impossibilità dello “stare in un luogo” (il cane in contrasto con la metro che passa sulla ferrovia), altre (insieme a delle scritte) indicano come una cosa possa essere scambiata per un’altra (adieu come au dieux, au come oh, fino al langage di cui uno dei due uomini cerca la povertà). In alcuni immagini, come gesto estremo, la donna della Metafora cerca negli oggetti una qualche spinta a comunicare.

 

 

 

 

 

 

Infinite, insomma, le situazioni, le immagini, le possibilità che apre Godard. Una fine che è un nuovo inizio (l’apertura all’immaginario di Mary Shelley che ridà vita a un uomo morto, la fantascienza di van Vogt, l'immagine di copertina di La fin du A, misteriosa all'inizio, svelata alla fine), le due domande (una piccola e una grande, anche se quella piccola è pure grande: la sofferenza e l’altro mondo), infinite risposte come nessuna risposta, un contrasto continuo di antipodi. Ma Adieu au langage è un capolavoro, perché invita alla speculazione, al pensare in un mondo in cui non si pensa più e dunque non si vive più, non si ama più, non si possiede più niente. Se l’uomo era debole, si è del tutto autodistrutto. E se non c’è solo lo stare al mondo, e c’è qualcos’altro, il pensiero magari, allora va riscoperto. E forse Adieu au langage sarà riuscito a dare nuova linfa a tutto il genere umano.

 

Richard Chevallier, Jessica Erickson

Adieu au langage - Addio al linguaggio (2014): Richard Chevallier, Jessica Erickson

 

Un film gigantesco, che sconvolge e illumina sull’infinito splendido crudele creato che ci sfugge. Un’esperienza sensoriale e immersiva.

 

scena

Adieu au langage - Addio al linguaggio (2014): scena

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