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Camille Claudel 1915

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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La recensione su Camille Claudel 1915

di alan smithee
8 stelle

Non è una novità che il glaciale spigoloso regista Bruno Dumont sia interessato in modo viscerale, fino ossessivo, ai meandri più oscuri della mente umana, quelli che trapelano dai comportamenti spesso fuori degli schemi dei suoi tormentati o spesso inebetiti o atoni protagonisti, eroi spesso imbarazzanti o imbarazzati della sua non certo leggera né tantomeno accattivante o facilmente accessibile filmografia.
Prendendo spunto da una serie di lettere accorate - intrise di triste rassegnazione ma pure di irriducibile energia e ribellione interiore, e dunque per certi versi struggenti, scritte dalla tormentata artista agli inizi del ‘900 al fratello Claude (e delle relative risposte di quest’ultimo) ma anche da altre missive inviate di nascosto dall’artista imprigionata con la complicità di una giovane compassionevole cameriera della clinica ad altri conoscenti durante il fulcro della sua “detenzione forzata” presso un manicomio del sud della Francia su ferma, intransigente decisione dei suoi familiari - Dumont scarnifica più che può il già leggero materiale narrativo. Il regista punta la macchina sul volto sofferente e cosciente dell’artista e su quello, pervaso dalla follia e dall’irragionevolezza, degli altri ospiti di quel triste ricovero religioso. Un soggiorno da incubo soprattutto in quanto la donna risulta certo turbata e dalla propria complessa personalità, irascibile ed insicura, ma a tutti gli effetti tutt’altro che folle, conscia piuttosto di come da questa sua forzata prigionia non riuscirà purtroppo più ad uscirne viva.
Sullo sfondo una ricostruzione d’ambiente precisa e calcolata nella sua semplicità ed essenzialità, fatta di inquadrature fisse o quasi su un paesaggio agreste caratterizzato da coltivazioni di lavanda sfiorite dal freddo invernale, da cime di alberi spogli assopiti da un freddo polare anche interiore che spesso caratterizza le ambientazioni dell’autore, da cavalli da tiro immobili, imponenti ed altezzosi.
Un cineasta che non si è mai posto il problema di piacere a tutti costi e di concedersi alla fiducia e all’accettazione di un pubblico vasto e sfaccettato, né tantomeno di trovarsi accolto con favore da una critica che, pure in Francia, paese che tendenzialmente difende a spada tratta i suoi artisti, non perde occasione per prendere le distanze e stroncare puntualmente ogni sua opera (non ultimo questa sua ultima fatica, bollata con un pallino su cinque da riviste “ufficiali” e spesso indulgenti come Premiere, che loda solo – e in modo appropriato ed inevitabile comunque – l’interpretazione “vissuta” di una Binoche sorprendente). Anzi un regista a cui piace creare sgomento con i suoi protagonisti disarmanti, reietti da un mondo che tende a nasconderli perché impresentabili o scandalosi.
Seguiamo pertanto una sola settimana di vita routinaria e vuota, persa nel nulla, della celebre artista tra una cucina disadorna (dove ha il permesso speciale di cucinarsi il frugale pasto quotidiano), un chiostro ove trapela qualche lieve raggio di sole per scaldare un’anima tormentata ma non ancora doma, una stanza per la ricreazione ove i ricoverati manifestano platealmente le loro gravi problematiche mentali insanabili, e dove inesorabilmente matura la rabbia di una donna fragile e dai nervi poco stabili, facile all’ira e allo scatto inconsulto, ma dall’intelligenza sopra la media, costretta a convivere con la follia e la demenza per un complicato e perverso disegno o complotto familiare di chi crede di volerle bene, ma in realtà la piega per sempre ad un oblio che non le consentirà di tornare a produrre alcunché ma anzi la vedrà abbandonare per sempre il mondo dell’arte e della scultura; così da rendere ancor più crudele l’interrogativo inevitabile da porsi, quello inerente l'arte che avrebbe potuto produrre  un'artista così dotata seppur insicura e fragile. Opere probabilmente fondamentali per l’umanità che in tal modo non ebbero mai la luce nella sfortunata esistenza dell'artista, dopo in un trentennio buttato via da segregata e dimenticata dal mondo.
La notizia della imminente visita dell’amato fratello costituisce per la povera Camille come una boccata di ossigeno e di effimero ottimismo che illumina, almeno a tratti, la quotidianità di una vita in reclusione immotivata.
Nonostante Dumont non riesca proprio ad esimersi di puntare la sua telecamera, in modo sin eccessivo e inutilmente provocatorio, sui volti devastati e inquietanti della follia (a questo punto direi reale, vera più del vero), come e più di quanto possa intravedersi in altrettanti profondi ed ossessivi uomini di cinema affascinati come il presente dall’introspezione dell’oscuro mistero della mente umana (mi viene in mente l’austriaco Seidl, visto proprio di recente in due sue notevoli opere), per fortuna la camera distoglie spesso questo suo sguardo “malato” perdendosi nel volto sofferto, accanitamente trascurato e sofferente di una Binoche davvero stupefacente, prima vera diva ad entrare nel ruvido cattivo mondo cinematografico del controverso regista francese, più avvezzo a scegliere i suoi attori tra i non professionisti. Attrice venerata dai suoi registi, che spesso si annullano nei suoi personaggi mettendoli sin troppo al centro di una trama che scompare di fronte alla loro ingombrante ma notevole espressività, (ricordate l’enigmatico, indecifrabile “Copia conforme” di Kiarostami?), Juliette ha il volto della sofferenza, di chi è vittima di un’ingiustizia che non riesce a comprendere e della quale alla fine siamo vittime pure noi posteri che non potremo mai la possibilità di godere delle meraviglie che avrebbero potuto produrre le sue mani e la sua mente fertile e creativa. L’attrice entra nella parte con una profondità impressionante e vive la drammatica sofferenza del suo controverso personaggio con una intensità e una partecipazione che lasciano esterrefatti.
 

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