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12 anni schiavo

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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La recensione su 12 anni schiavo

di amandagriss
8 stelle

Perché, oggi, fare un film sulla schiavitù dei neri d’America?

Perché Steve McQueen è un videoartista/regista di colore.

Perché i suoi avi, con tutta probabilità, erano dei “babbuini” o “sporchi negri”.

Perché nelle due opere precedenti l’autore ha trattato il tema della schiavitù o, se vogliamo, della prigionìa, pur declinandolo in maniera differente, più o meno moderna, più o meno universale. Considerandolo un aspetto onnipresente, per quanto multiforme, nella storia dell’uomo.

Possono cambiare i tempi, i luoghi, i modi, ma il senso alla base resta lo stesso.

Schiavi o prigionieri di e per un ideale troppo grande, che non lascia altra scelta se non quella di sacrificare la propria vita perché possa concretizzarsi.

Schiavi o prigionieri per mano di se stessi, assicurati a catene invisibili, chiusi in gabbie di asfalto, vetro e cemento, disperatamente incapaci di affrancarsi da quel male interiore che consuma con la sua furia divoratrice. La condanna è una perenne incolmabile solitudine.

Schiavi o prigionieri per volontà di terzi, perché lo dice la legge, perché ‘’lo professano le sacre scritture’’, perché in alcuni posti del mondo, in maniera maggiore rispetto ad altri, il concetto di schiavitù viene tramandato di generazione in generazione come il verbo del Signore. Difficile, se non impossibile, estirparlo da chi -per i proprietari come per le loro stesse proprietà in carne e ossa- se lo ritrova inculcato dalla nascita, reputandolo una condizione normale giusta e legale, consona al sudato vissuto nelle vaste assolate praterie e piantagioni/prigioni a cielo aperto del sud degli Stati Uniti. Dove, tra i colori sfumati del tramonto e le sponde di un fiume costantemente tranquillo, tra i sentieri nell’erba alta e gli alberi con le fronde piangenti, giacciono, sempiterne, infinite atroci storie di esseri umani brutalmente martoriati.

Nonostante il ‘dolce’ sapore di tale concetto finisca col rivelare il fortissimo e amaro retrogusto ferroso del sangue.

 

Perché il mondo da sempre racconta la prevaricazione.

Perché ha scritto pagine e pagine, più o meno conosciute, sui dominatori e i dominati, padroni e sottomessi, signori e servi. Ce lo ricordano il colonialismo e il massacro dei nativi americani o la storia romana o, ancora più lontano, la civiltà egizia e tutto il sangue versato in nome del suo immortale fulgore.

 

Perché ancora oggi il mondo non smette di scriverne.

Le modalità sono diverse, certo. Magari il nesso che lega il passato al presente nemmeno riusciamo a coglierlo, eppure il legame esiste.

Il senso non cambia.

È sotto i nostri occhi, ma non tutti gli occhi riescono a vederlo, a interpretarlo o, forse, semplicemente, non vogliono farlo.

 

Nel nostro presente in cui l’identità -il nome, le radici, la storia personale, la formazione culturale- di chiunque è così pericolosamente a rischio d’estinzione perché l’attuale contesto storico non riconosce più l’individuo per quello che è, condannandolo senza appello a soccombere o inducendolo/costringendolo a reinventarsi per sopravvivere, a scendere a compromessi con un’altra vita che non è la sua, “l’uomo libero Solomon” che regredisce a “Platt, il viscido negro”, rappresenta coloro a cui l’oggi impone di rinnegare se stessi e trasformarsi. Il più delle volte involvendo. Mettere da parte indole, virtù e qualità. Adeguarsi, in peggio, ai tempi. Abbassare la testa, accontentarsi, tacere e ringraziare devotamente. E, a mali estremi, sputare sulla propria dignità se tali estremi rimedi risultano necessari per rimanere a galla, non farsi inghiottire dalla torbida putrescente palude che chiamiamo esistenza. E trascinare altri con sé.

Resistere a denti stretti, finché una luce in fondo al tunnel si riesce ancora a scorgerla.

Allora, se si volesse trovare un perché al film, potrebbe essere questo il suo senso.

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