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Paradise: Hope

Regia di Ulrich Seidl vedi scheda film

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La recensione su Paradise: Hope

di OGM
8 stelle

La trilogia di Ulrich Seidl si chiude sulla speranza. Quella che, esattamente come l’amore e la fede, è ispiratrice di tante passioni sbagliate e, appunto, paradossalmente, senza speranza. Gli obiettivi si coniugano quasi sempre con le frustrazioni; i traguardi a cui ci dedichiamo con maggiore impegno e partecipazione emotiva sono infatti solitamente quelli che, a livello più o meno inconscio, sentiamo fuori dalla nostra portata, e che, per questa ragione, trasudano l’immateriale ed eterna essenza del sogno. Li consideriamo inarrivabili, e dunque sono destinati ad accompagnarci per tutta la vita, ad essere coltivati indefinitamente, e con immutata devozione, al pari di un’attesa messianica. La meta al di là dell’orizzonte può essere, ad esempio, il raggiungimento del peso forma per una persona che ha qualche serio problema con la bilancia; oppure, per un’adolescente, la conquista del cuore di un uomo adulto. Melanie, che ha soli tredici anni ma pesa più di ottanta chili, viene inviata a trascorrere le vacanze estive in una struttura destinata ai bambini obesi: i giovani ospiti sono sottoposti ad un regime alimentare attentamente controllato e, in generale, ad una disciplina molto severa, che prevede il rigido rispetto degli  orari, una strenua attività fisica, il divieto di ogni contatto col mondo esterno e la messa al bando di ogni divertimento.   Melanie riesce subito a socializzare con gli altri ragazzi, però la compagnia dei suoi coetanei (nonché compagni di sventura) allevia di poco la sofferenza derivante dalla sua condizione di abbandono affettivo: i suoi genitori hanno divorziato, e la madre, dopo averla temporaneamente affidata ad una sua amica (in cui, nel segmento d’apertura, riconosciamo la protagonista del secondo film della serie), è partita da sola per il Kenia (vedi la trama del primo film).  Nell’inferno di quella colonia improntata al sudore e alla fame, Melanie crede di intravedere il paradiso nella figura del medico dell’istituto, che la tratta con atteggiamento paterno e scherzoso, seppure piuttosto ambiguo, tanto da far nascere in lei l’illusione di essere divenuta l’oggetto di un intrigante gioco di seduzione. In breve tempo, l’iniziale malinteso finisce per trasformarsi in una trappola sentimentale, in cui il turbamento è reciproco e la vicinanza provoca imbarazzo in entrambe le parti. Due solitudini si incontrano e si ritrovano, loro malgrado, a camminare insieme, per un tratto, lungo il solco di un drammatico equivoco. La situazione è confusa e senza sbocco, tuttavia è così torbidamente coinvolgente che uscirne richiede una grande determinazione, oltre a comportare non poco dolore. Come nei precedenti capitoli della trilogia, due individui sono legati da un rapporto asimmetrico, sconveniente, e privo di futuro perché basato su un contrasto insanabile, che ostacola l’armonia e la mutua comprensione. Il tentativo di superarlo non fa che accentuarne la portata, tramutando le differenze in spunti per farsi del male a vicenda. Sullo sfondo, intanto, il mondo continua a proporre i suoi sterili schematismi, che pretendono di inquadrare i conflitti in  categorie statiche, interamente incapaci di risolverli, o anche solo di analizzarli criticamente. In questa realtà non propriamente integralista, né del tutto secolarizzata, quelli  che troppo spesso scambiamo per valori fondamentali, sono soltanto inutili proiezioni di istinti, ombre di idoli che rimangono immobili, sul muro, ad assistere al nostro sconfinato tormento. C’è l’amore ridotto ad una banale questione di sesso e denaro. C’è la fede che si nutre unicamente di precetti svuotati di ogni umanità. E c’è, infine, anche questa benedetta speranza, che è figlia dell’(auto)inganno, e ci trascina alla deriva, ad inseguire una falsa promessa, mentre perdiamo di vista i nostri propositi.  Ulrich Seidl lo sa, e ce lo ricorda, ancora una volta, fremendo con noi per l’impotenza di chi, messo di fronte ai propri errori, non ha la volontà necessaria a correggerli, né la saggezza richiesta per perdonarli.

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