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La grande bellezza

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su La grande bellezza

di giuvax
6 stelle

Sorrentino.
Io l'ho amato da subito, Sorrentino, da quando aveva fatto solo due film e lo incontrammo in una proiezione de L'uomo in più alla sala Alfieri a Firenze, che ora non so se funziona più. Timido, bruttino, in napoletano si dice 'sconcicato', ossia non curato e anche fisicamente malvestito e goffo. Per me, amore a prima vista.
Ho amato da subito i due Pisapia. Era un modo di raccontare 'sporco', poco appetibile, molto suggerito e poco spiegato. Quello che adoro. Adoro Ferro3 per lo stesso motivo. Si vede un ragazzo, entra nelle case. Pensiamo 'è un ladro'. Come far capire che non lo è? Mostrandoci oggetti di valore nelle case in cui entra, e che lui ignora, quindi non è un ladro. Non c'è bisogno di spiegare, basta saper usare lo strumento cinema. Ci chiediamo 'ma è muto?' e lui ci mostra che risponde al telefono, quindi almeno in teoria non è muto (ma non lo sentiamo parlare). Ecco, questo cinema ridotto all'osso, che usa lo strumento al massimo, a me dà i brividi. Mi solletica il cervello, mi dà un piacere quasi fisico.
Sorrentino non era così estremo, ma aveva qualcosa del genere: sapeva scrivere e sapeva filmare. Ho amato i Pisapia e ho amato Titta. Come si fa a non amare Titta? Io mi sento molto Titta. Mi identifico molto nei personaggi complicati e non facilmente spiegabili a tutti, mi identifico in quelli che gli altri danno per scontato: e che per questo vengono quasi sempre fraintesi. Titta è una persona così sensibile che sembra insensibile, come tutti i timidi osserva tutto ma è molto bravo a non farsene accorgere. Quando Sorrentino lo guarda, lo segue e lo insegue io godo, capisco perché sale e scende con la macchina da presa, capisco quel linguaggio nello stesso modo in cui finalmente si arriva ad avere l'orecchio per una lingua prima ignota. Come capisco l'inglese senza più bisogno di sottotitoli.
Ho amato anche L'amico di famiglia, e forse ho amato Il divo, ma è da allora che è cambiato qualcosa. Qualcosa non mi convince più. Ho paura che Sorrentino inizi a marciarci, su questa bravura nel filmare che indubbiamente ha. Ho paura che sia maniera, che sia esercizio di stile, che sia compiacimento e basta. Inizio a sentire uno scollamento. Ho avuto questa leggera sensazione col Divo (e forse dovrei rivederlo) ma ne ero ormai abbastanza certa con This must be the place, che ho apprezzato solo perché adoro Sean Penn. Guardo, giro, sento, ascolto, cerco di seguirlo nei suoi sguardi, mi perdo nelle riprese lunghe (e insomma, si sarà capito che non sono le riprese fisse e insistenti che mi spaventano, considerato Dumont). Risultato: niente, non sento niente. Come fossi anestetizzata. Alla Grande Bellezza, infine, ho dato tre stellette su cinque perché mi riservo di ripensarci e di cambiare opinione. Ho fatto una lunga discussione con una persona che stimo molto e che mi ha dato una prospettiva che non avevo considerato. Ma di fatto, sono uscita dal cinema a Padova (dove l'ho visto quest'estate per caso con un'amica) quasi letteralmente disgustata. Delusa e amareggiata. No, rettifico: ero incazzata. Ecco in ordine sparso i pensieri che mi hanno attraversato la testa.

- Ma sì, ok, ora abbiamo i soldi, facciamo vedere che posso usarli come dico io: vediamo, chi mi vieta di filmare in un attico che guarda sul Colosseo? Ecco.

- Servillo, tu lo sai che ti amo, ma si vede che cerchi di non rispondere alla richiesta di Sorrentino di strafare e gigioneggiare.

- Ferilli imbarazzante. E non perché dovrebbe esserlo nel film: perché lo è e basta. Non ci siamo, vuoi fare la parodia di te stessa, ma sei penosa. (Mi viene in mente la gente del popolo che vive accanto al protagonista di Reality. Quella è una delle categoria di gente che Sorrentino secondo me potrebbe ipoteticamente ridicolizzare. Beh, non c'è niente di ridicolo in loro. Sono dignitosi e sinceri, pur nella loro miseria).

- Sorrentino, stai facendo la presa in giro di te stesso, non di loro, non della gente vuota di spettacolo: di te. Stai facendo le caricature delle riprese che facevi con Titta. Abbiamo capito che sai prendere un dolly e piazzarlo sulla luna, se necessario, ma andiamo, se volevi inquadrare una piazza ad altezza formica, non potevi metterti direttamente a terra? Ti assicuro che non serve a niente partire dalla luna per arrivare alla formica, stai solo facendo sfoggio di mezzi, senza una sostanza.

- Vogliamo parlare seriamente della santa e dei fenicotteri? No, direi che ho esaurito gli aggettivi dispregiativi e non voglio ripetere la parola imbarazzante.

Ecco. Lo so, le incazzature del momento passano, e bisogna ragionarci anche a mente fredda, ed è quello che ho fatto. Ma questo era più o meno lo stato d'animo con cui sono uscita dal cinema e mi sono incamminata per le strade deserte della mezzanotte di un giorno di agosto a Padova. Padova era  tiepida, umida come sempre e lucente, le sue strade e i suoi pavimenti, e sotto la luna e senza nuvole era diversa dal solito. Silenziosa. A quel punto è partita una seconda fase della digestione del film. A quel punto la mia amica ed io abbiamo cominciato a guardarci e poi finalmente abbiamo esplicitato la sensazione, identica per entrambe: stavamo camminando nelle scene del film. Ci aspettavamo di incontrare personaggi surreali visti nel film. Dunque da qualche parte Sorrentino era arrivato. A distanza di mesi ancora non so dove, ma ne sono sicura. Aveva però comunicato ad altro livello, parlando di cose apparentemente non vicine a noi eppure, evidentemente, in cui ci eravamo sentite chiamate in causa. Però mi sentivo egualmente offesa dal vuoto che sentivo, rispetto alla densità degli altri film. E le cose che mi erano rimaste impresse erano appunto nello stile del 'vecchio' Sorrentino. Esempio: il personaggio di Verdone, che ho davvero amato (e io odio Verdone). Quei dialoghi verosimili, che improvvisamente spiccano in mezzo a una narrazione astratta e surreale o grottesca, come quel che cazzo ti sei fatta che Bukowski-Gazzara sputa fuori a parole spezzate quando scopre le follie autolesioniste della Muti in Storie di ordinaria follia. Quel lampo di umanità, verosimile alla massima potenza, quelle parole che verrebbero in mente a ciascuno di noi ed esattamente con quel tono, ecco: quello mi ha riavvicinato al film, tramite Verdone. Su tutte: la scena a casa con Servillo sul letto, a parlare della sua vita, delle sue debolezze e dei suoi amori. E poi la dolorosa dichiarazione d'amicizia finale.
E per lo stesso motivo, ho adorato la discussione che alla fine 'crocifigge' l'amica, in terrazza, schiaffandole in faccia tutto quello che in realtà è lei, mentre accusa tutto il suo giro di amicizie e conoscenti rispetto ai quali si sente superiore. Quella sentenza di Servillo ha quasi la stessa potenza del mitico monologo di Pisapia. Io me la ricordo tutta, la coca che ho pippato. Non è vero che la cocaina distrugge la memoria, è una cazzata, sono trent'anni che tiro e mi ricordo tutto.


Mi è stato detto che non l'ho capito. Perché è un film sui fallimenti, ed è un film che dietro l'apparenza di un mondo lontano coinvolge tutti, perché tutti rinunciamo raccontandoci solo scuse. Può darsi, e a mente fredda riesco anche a comprenderlo. Il problema è che non l'ho sentito. C'è un ponte che mi manca, tra quello che ho visto, e quello che ho percepito a livello inconscio, uscendo dal cinema quella sera a Padova.
Ebbene, allora: al momento ho sospeso il giudizio. Ho intenzione, anzi ho bisogno di rivederlo. Non ora, ora è troppo presto.

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