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Bianca come il latte, rossa come il sangue

Regia di Giacomo Campiotti vedi scheda film

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La recensione su Bianca come il latte, rossa come il sangue

di M Valdemar
4 stelle

Beige come la fiction.
Così, giusto per completare le analogie sui colori. Che, nella nuova fatica di Giacomo Campiotti (non a caso negli ultimi tempi “attivo” con varie miniserie) si fermano ad una banale elencazione come uno svogliato compitino, di quelli fatti per portare a casa la sufficienza.
Di fattura televisiva è innanzitutto la stori(ell)a, ennesimo bignami di patemi adolescenziali e fiera compiaciuta di percorsi formativi. Tratto dall’omonimo bestseller (termine che ormai evoca solo scenari infausti) di Alessandro D’Avenia, Bianca come il latte, rossa come il sangue presenta quella fumosa ben nota tonalità che sta bene con tutto - un misto tra il grigio (opaco) e il marrone (fecale) -; su cui, per conferire un aspetto cool, basta spruzzarci sopra le eterne fresche frizzanti tinte del complicato mondo giovanilistico del momento. Un tanto al chilo, però: guai se per caso o per sbaglio una volta tanto ci scappa qualcosa di valido, eh.
Non ingannino le tristi vicende e la triste sorte della rossa (artificiale e artificiosa) Beatrice, in quanto mero strumento della cavalcata verso la vita dell’iperattivo iperinverosimile Leo. Quella, finta come il rosa shocking, appare e svanisce in una nuvoletta di pensieri e didascalie da fumetto, di quelli un po’ stupidi che magari sanno anche come sfruttare per il loro piacimento e tornaconto argomenti seri.
Dissolto in cinerea polvere la carta (straccia) dell’”astuto” espediente, del “prezioso” quadernetto trasformato in film non rimane che il solito campionario di clichè e robe viste e straviste. A partire dal protagonista caricato a mille, autore di azioni e gesti plateali (e platealmente falsi come un orso bruno con le meches violetta), attorno al quale gravitano gli altri, appiattiti verso l’anemica inconsistenza.
Richiamando il celebre motto delle figurine Panini “celo celo” (almeno la prima parte ché non manca proprio nulla) ci stanno tutti: il professore alternativo comprensivo (nonché boxeur) dispensatore di consigli e amicizia, i genitori-macchietta che più macchietta non si può, l’amica innamorata (Silvia, di cui rimembrar la dorata coscia con incisa l’equazione della beltà), i compagni di scuola lattiginosi come ectoplasmi.
A far da sfondo alle giulive vicende, luoghi freddi e velati alla pallida anonimia (il campo di calcetto, casa, l’ospedale, la scuola, la palestra), che in sostanza sanno di insegnamento “inverso” (ovvero: guardate come si fa a non saper beneficiare dell’ambientazione torinese).
Un dettaglio, si può perdonare (dopotutto non è che volessero girare un film d‘atmosfera, che so, un horror dei bei tempi andati).
Quello su cui non si può passare sopra è l’agghiacciante disturbante rivoltante riempimento sonoro delle enfatiche “canzoni” dei Modà.
Fastidiosi come il giallo fosforescente, nulli come il nero che inghiotte.

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