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Miele

Regia di Valeria Golino vedi scheda film

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La recensione su Miele

di OGM
8 stelle

Aiutare chi non ce la fa più. Fino a non poterne più, a propria volta. L’agonia può essere prolungata, per volontà, per paura, per destino, ma la fine giunge, prima o poi, inesorabile, e sempre temuta, per quanto ardentemente attesa. Irene, alias Miele, è una giovane donna la cui missione è accompagnare i malati terminali a superare quella soglia, in maniera dignitosa, ma soprattutto consapevole. La decisione di dire addio a tutto non può coincidere con l’atto pavido e banale di arrendersi e lasciarsi andare. Miele segue regole precise, perché neanche un dettaglio sfugga al controllo delle persone coinvolte, e niente sia affidato al caso. Il suo rigore è espressione di una moralità tanto ferrea quanto sofferta, coraggiosamente contenuta entro i limiti del distacco professionale e di una concezione umile e imparziale del senso dell’umanità. Miele fa quello che è dolorosamente necessario, con la durezza che serve a reprimere lo strazio provato di fronte a quella immagine della disperazione, e con la dolcezza che lascia trapelare tutta la sua commossa comprensione per quella scelta estrema. Sotto l’obiettivo sensibile e carezzevole di Valeria Golino, Jasmine Trinca interpreta una ragazza normale, insicura ed inquieta, alle prese con i dispiaceri ed i fallimenti di una vita che non ha ancora trovato la sua strada; tuttavia, nei momenti importanti, quella sfumata ordinarietà riesce a raccogliersi intorno alla grandezza di osare l’impossibile, sfidando le leggi e i pregiudizi per fare il bene che la maggior parte del mondo identifica col male. Quelle impennate di segreto eroismo si fondono armoniosamente con i silenzi di un’esistenza improntata alla fuga, alla ricerca della solitudine, al culto di una felicità rubata nei ritagli di tempo, e alla tormentata introspezione che accompagna il continuo vagabondare di un’anima ansiosa di donarsi. Intensità, in questo film, è la forza con cui la protagonista, una figura minuta e fragile, si dimostra in grado di operare la verità, fino in fondo, mantenendo nel contempo il difficile impegno di tacerla. Compiere le azioni e trattenere le parole, mentre ci si sporca le mani  di sangue e di mistero, è la mansione che trasforma la timidezza di una fanciulla melanconica e pensosa nell’elitaria riservatezza del saggio eremita o del cavaliere solitario: un personaggio che conosce il mondo da lontano e, per cambiarlo, al momento giusto, entra in scena e lo tocca di nascosto.  Dal libro  a cui è liberamente ispirato, questo film prende in prestito la voglia forsennata di scavare dentro il buio, senza pretendere di vedervi la luce: un tributo alla tristezza che, lungi dall’essere un fugace stato d’animo, è una punta di roccia che spunta da un abisso di tragica inspiegabilità.

 

 - Buonanotte, comandante, - e girandomi verso la scaletta ho visto, forse per la prima volta, giù in basso, lungo la murata, la densità del nero di cui era intrisa, ma forse sarebbe più giusto dire composta, ogni onda. Eravamo a poche miglia dalle spiagge di Bari, eppure faceva male pensare a quanto intrinsecamente nemica delle terre emerse fosse l’acqua del mare. Non era sufficiente saper nuotare per vincere quel sottile orrore, non per me almeno. Mi sono aggrappato al corrimano e sono sceso cercando di distogliere lo sguardo dall’oscurità che si sollevava e si abbassava incessante, gonfiandosi come i veli di una scenografia teatrale allestita senza badare a spese per un’opera affollata di entità soprannaturali. (brano tratto dal romanzo A nome tuo di Mauro Covacich)

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