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Il fondamentalista riluttante

Regia di Mira Nair vedi scheda film

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La recensione su Il fondamentalista riluttante

di alan smithee
4 stelle

Ascesa rapida e senza freni verso l’olimpo del potere economico occidentale e caduta altrettanto rapida ma deliberata, non subita, verso gli inferi dell’integralismo più convinto e senza pietà da parte di un giovane pakistano di nome Changez Khan. Un brillante studente di economia, figlio di una borghesia agiata ma in rapido declino economico, che si trasferisce ad Occidente nell’America della realizzazione delle proprie qualità, e che grazie alle proprie indubbie capacità riesce in pochi mesi a venir assunto e poi a far parte in qualità di più giovane associato della storia, di uno degli istituti economici di consulenza più illustri d’America; in copo tenpo il giovane si riesce a distinguersi come il più efficiente, razionale ed inflessibile tagliatore di costi fissi del settore, e per questo generatore di un risparmio di spesa che da un lato genera ricchezza, ma dall’altro parimenti disoccupazione e un esercito di famiglie allo sbando. La vita, anzi l’epopea di Changez viene seguita a ritroso dai giorni nostri quando, in seguito al rapimento di un illuminato professore di economia aperto al mondo mediorientale, il giovane, ormai tornato nel nativo Pakistan ad insegnare economia (ma non solo), viene intervistato da un dinamico giornalista/informatore (Liev Schreiber): l’occasione più propizia per ripercorrere tutta la sua ascesa e caduta a partire dai mesi che precedettero l’attacco devastante delle torri gemelle del settembre 2001 fino ai disordini che continuano ad imperversare attualmente nello stato tra i più caldi del Medioriente.





Mira Nair non mi è mai piaciuta molto. Affascinata dal mito occidentale, si fa corteggiare da anni dall’industria e dal mondo Occidentale grazie ad una fama che a mio avviso tende a sovrastimarne le effettive doti. Una cineasta certo impegnata, che tende tuttavia sempre un po’ troppo furbescamente a giocare con la propria cultura di appartenenza, i proprio folklori, spesso raffigurati in modo innaturale come sdolcinate cartoline edulcorate da tanta superficialità o luogo comune. Questo film in fondo ci riporta la nota regista verso temi e situazioni che per fortuna la allontanano da certe laccate produzioni hollywoodiane quando va bene inutili che hanno caratterizzato la sua recente produzione, e le argomentazioni e la materia che stanno alla base della sceneggiatura sono indubbiamente importanti e di indubbio interesse. Quello che proprio non riesco a mandar giù sono quelle situazioni ampiamente masticate che vedono impegnato l’intelligentone orgoglioso scavalca-ceti-sociali (la regista poteva farlo interpretare, a questo punto, magari da quel "grande" attore cinquantenne ed eterno giovincello d'un Tom Cruise, già che c’era, per restare coerente alla strizzata d’occhio alle vie del successo divistico) intenerirsi fronte a tanta tracotanza, innamorarsi ovviamente  (orrendo anzi ridicolo il personaggio della vedovella artistoide assemblatrice di foto-gadgets tra il kitch e la comicità involontaria, ideate per allestire mostre radical-chic alle quali nessuno oserebbe in realtà  metter piede non fosse che costituisce tendenza – tra l’altro interpretato da una Kate Hudson completamente fuori parte) e infine pentirsi fino a cadere nelle maglie del’incitamento terroristico; rassicurandoci tuttavia infine che quello del giovane protagonista  è solo un umano atteggiamento di incertezza e dubbio esistenziale causato dalle circostanze avverse. Solo a quel punto il ragazzo di rende conto della necessità di percorrere un cammino a ritroso per ritrovare i valori della purezza, del senso della famiglia e di quello delle proprie origini: valori che la cultura occidentale pareva avergli cancellato definitivamente; fino a comprendere, forse, l’assurdità irrimediabile di una risposta violenta (l’attacco dell’11 settembre) come possibilità di cura da una violenza e prepotenza perpetrata da un liberismo senza controllo, arrogante e superficiale, che di fatto rende più schiavi e disumani dell’integralismo. Riflessioni pertinenti, ma condotte in modo piatto e scontato in un film spesso prolisso e più interessante negli intenti che nella sostanza.

 

 

 


 

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