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Giovani ribelli - Kill Your Darlings

Regia di John Krokidas vedi scheda film

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La recensione su Giovani ribelli - Kill Your Darlings

di lorenzodg
6 stelle

“Giovani ribelli” (Kill Your Darlings, 2013) è la prima pellicola del regista dell’llinois John Krokidas.       E la morte che fa rivivere. E la poesia che indica una vita. Amanti di gloria annullata, di sconfitta postuma e di parole da inchiodare. Come le pagine di libri secolarizzati che svuotano la mente e strappati senza ritegno vengono spalmati sul muro di una stanza ammuffita di dolore e scavata di sembianze umane attorcigliate. La vita riconduce alle proprie nascite e a luoghi invaghiti dove il fumo, il bere, lo schifo, la putrefazione, l’invidia assorbita diventano l’harlem inesplicato e interiorizzato di una generazione lontana dalla storia ma dentro al suo ‘ineluttabile’ corso. Il mentore di ciò che non riesci a dire. E la Columbia University rimane lì apostrofata da ‘ragazzi’ in forma di astinenza e pieni di ‘roba’ da vomitare per poter dire a generazioni non conosciute. Un antefatto della ‘beat generation’ con il trio faville (dal vero) Allen Ginsberg, Jack Kerouac eWilliam Seward  Burroughs che appaiono appannati virgulti di una schiena appena rinfrancata da rotture ideologiche.
     Una pellicola abortita e piena di blocchi ‘mentali’, fausta di perd(i-m)enti inutili e di vocazione poetica ancora di un manipolo di giovinastri tremanti del sapere di spazi da percorrere. E l’Università integerrima e caposaldo di una cultura agognata diventa lasciapassare ‘scurrile’ di uno sfogo insperato e di un tragitto giramondo che porta alla sconfitta del reale e alla vincita ‘ideale’ di morte e sangue, di scardini e amore controverso. Il coltello nella piaga vera diventa metafora di un inizio generazionale che dalle mura sacrali della biblioteca si aprono e arrivano ‘sulla strada’. Per motivi sconsiderati l’antefatto di un lungo ‘on-the-road’ cuòturale si muove e si smuove dalla polvere di una biblioteca imputridita (secondo i giovinastri) e di scheletri per troppo tempi chiusi in armadi troppo protetti. E vale più del sesso un atto di pochi secondi per rubare per pochi attimi appunto (Allen è uno di fretta per una ragazza di zero problemi) una chiave e scambiare statuari monoblocchi del ‘Gutenberg’ che fu (e delle stampe prime senza prezzo) con primizie ‘fallocentriche’ e mistificanti donne in posa ‘vaginale’. E il cerchio si chiude con tetro mondo di ragazzi scambievoli in parole poetiche e in baci compromissori, in idee ancora da capire e in amicizie (corposamente) virilmente (apostrofate). Ma il benemerito professore Stevens addice al ragazzo Allen Ginsberg la chiosa finale per andare avanti senza perdersi d’animo con una lettera profumata (chi sa se di poco) di antico refrattario congruo idillio amorevole.
     Tutto sembra quello che si vuole fare apparire in questo film. E il lontano che non si vede (e non si dice) profana gli scritti soporiferi e antesignani di un mondo che non ci conosce. Tutto rimane dietro alla scenografia compita e ‘disegnata’ di un periodo bellico con suo sentore radiofonico (lo scambio musicale-jazz con la voce delle ultime notizie europee sul fronte è solo l’appunto ‘orgiastico’ tra figlio e padre Ginsberg) e ciò che preme allo spettatore sapere si ferma nella ‘violenza’ parola di termini poco consoni per una ‘University’ catodicamente ferma ad ogni uso diverso (e l’Arhur Rimbaud proclamato in rima... con diretta voce da uno studente in biblioteca sopra i tavoli ‘poco fuggenti’ volendo essere buoni … col ‘..cazzo..’ che disdice quando il vuoto non misurato di visi non sempre adatti a chi vede e non si sorprende di altro di voci ‘generation’ svampite sì ma poco incuriosite verso il pubblico che ascolta). E ciò pleonasticamente che dovrebbe essere vivo rimane spento (non morto da rivivere come viene proclamato da Lucien) e perduto nelle immagini piatte di sguardi spaventati di recitare l’ir-recitare-impossibile come se l’animo chiudesse i propri trasporti e l’ignominia di una atto (omo)sessuale che preclude in pari al passo del sangue con la morte (reale) che dilania il sogno di un manifesto che di irreale (sembrava) cibarsi.
     La vita dei tre giovinastri-contro si apre per sempre con un delitto di chiusure visive per i loro sguardi: nella notte del 13 agosto 1944 (mentre gli alleati stavano liberando l’Europa) il ragazzo evasivo e tristemente bellissimo Lucien Carr uccise David Fammerer (suo amante) in una spiaggia spremuta di occhi con un lama che perturba l’animo e squarcia il corpo dissanguando morbosamente i media che si saziarono a sufficensa dell’Aante)fatto che aprì la strada a chi di ‘beat generation’ ancora doveva entrarci.
     Tutto in questa pellicola rimane in una superficie distratta con mentori, voci, sguardi, corpi e parole mescolati a se stessi senza dipanarsi ed entrare nella ‘animosità’ di uno sguardo (esterno) poco partecipe e assonnato. D’altronde la schiera di pre-inizio ad un’epoca e un indice di storia che sventolano contrapposti o quasi (la guerra in forze e la guerra delle parole) non si esplicano in attori forse non addentro alla questione. E il cast di ragazzi (attori) fanno quello che possono in una soluzione di speranze e di fallimenti poco adatti a vari commenti facili e inadattabili a commenti inutili.
     Il film di John Krokidas finisce dove inizia nel voler far sentirci partecipi di un ‘banchetto’ poetico poco servito ai nostri animi (e tutto quello che uno sente è partecipe solo nell’illusione di un sogno ‘contro’ e di ‘commensali’ serviti da una lettura al di fuori dei nostri inutili partecipanti alla storia filmica)  e di attori che si misurano con un passato fatto di ‘sfumature’ e di ‘forzature’ che d’accordo sono in loro (commensali) ma in disaccordo in noi (semplici spettatori).
     Il quadro attoriale Daniel Radcliffe (Allen Ginsberg), Dane DeHaan (Lucien Catt), Ben Foster (William Burroughs), Jack Huston (Jack Keroauc) con Michael C. Hall (David Kammere) riesce con fatica-triturante a tenere il passo di una scrittura ‘annodata’ e il loro recitare pare un ‘cartoon-letterario’ pendente, adilettoso e poco edificante per essere sopra-beat. E il fatuo adolescente ‘Harry.P.’ che si vuole liberare dalla vesti (inadatte) pare continuare in Allen la misura con qualche extra in più e scene da copione che riservano poca sorpresa e delle maschere-corpi irriverenti (per nascondere ciò che piace).
     “Chiudi quella bocca!”, “Pensavo la volessi sempre aperta” e il battibecco diretto tra Jack e la sua donna che inondano il pensiero-sorriso ma scadono in performance senza commiserate vigliaccherie e in una liberata via di percorsi agognati. Nella vita effusiva e nel rinchiuso della camera, nell’orizzonte disperso e nello scrittoio fermo. Tutto in opposto con forza invisibile e con immagini bloccate. E la regia diventa assioma inverecondo di un cinema mai fermo e per sempre in quadro spento.
     Voto 5/6 (le stelline sono a metà ma la voglia di provarci è sintomo di inadeguatezza).

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