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Giovani ribelli - Kill Your Darlings

Regia di John Krokidas vedi scheda film

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La recensione su Giovani ribelli - Kill Your Darlings

di ROTOTOM
4 stelle

Eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo. Diceva Gino Paoli. C’erano una volta William “Willy” Burroughs, Lucien Carr, Jack Kerouac e Allen Ginsberg , giovanissimi, in un’ università , la Columbia University che grazie a loro diverrà il tempio di quella corrente letteraria chiamata Beat Generation.

La generazione del Beat, battito, ma anche ritmo, sonoro cardiaco e vitale. Quattro ragazzi, artisti , scrittori, poeti  e gaudenti capaci di infrangere ogni regola costituita e di ricostruirne altre.
Rompere strappare lacerare il passato, cancellazione di poeti cariatidi ingabbiati in metriche e regole, quando l’arte non è altro che fuoco creativo dissoluto piacere generatore di vita.  E poi droghe, esperienze allucinate riportate su carta. E poi amori, omosessuali soprattutto, frutto di una sconfinata giovinezza sorretta dalla bellezza dell’intelletto. E viaggi, in futuro quelli che porteranno alla fuga dalle convenzioni.



C’è la guerra, nel 1944 , un conflitto che in capo ad una manciata di mesi finirà con la liberazione dell’Europa dallo spettro nazista. Il mondo è pronto al cambiamento e lo sarà ancor di più una decina d’anni dopo quando questi signori, così giovani belli  e reazionari, decideranno di imporre la loro visione del mondo delegandola all’immortalità dell’opera letteraria. Volevano rompere ogni convenzione. E ci riuscirono, portando la “Nuova Visione”,  manifesto del movimento letterario che ha nell’ambiguità intellettuale/psichedelica il punto di forza, alla conoscenza del mondo.



Bene. Questa è la realtà, che con il cinema non ha nulla a che fare. Soprattutto quando per raccontare una storia di ribelli, di rottura, di passionalità  e soprattutto quando la sceneggiatura insiste sul concetto di frantumazione degli schemi espressivi , riguardo la poesia soprattutto storicamente ingabbiata in  ripetitive formule , rime e metriche , la forma scelta è quella del trito radiodramma filmato, convenzionale assemblaggio di scene senza coraggio e sperimentazione, ingabbiato nella linearità narrativa esplicativa e didascalica tipica del film mainstream,  incorniciata nello stile  ammiccante della patina fotografica.  Il focus è sull’amore acerbo del giovane Ginsberg verso il giovane Carr (Dane DeHaan l’unico a salvarsi nel disastro del film) ambigua mantide che sfrutta i talenti dei suoi amanti per avanzare nella didattica dell’università.


 

Inguardabile è il giudizio cattivo su questo film che smerda la visionarietà ribelle dei Beat, che si amino  o meno, tradendoli nella forma e usando un diluvio di inutili parole a corollario di   immagini furbescamente “forti”  e ricattatorie riguardo la loro omosessualità  per rendere  il film, inscatolato nella rassicurante – esorcizzante - materia rigida del blockbuster,  interessante a largo raggio per il pubblico medio da multisala. Percuote con garbo le pruderie dei convenuti sfruttando l’immagine del bel maghetto Daniel Radcliffe (che quando entra per la prima volta alla Columbia fa la stessa espressione della prima volta di Hogwarts), inopinatamente scelto per interpretare Allen Ginsberg (la trasformazione da maghetto a intellettuale ebreo omossessuale si ha semplicemente svasando nella parte superiore gli occhiali originariamente tondi), che si smutanda (letteralmente) e offre la parte meno nobile del proprio corpo (letteralmente) all’arte.



Pedante e pretestuoso, sfrutta tutti i cliché del genere giovani & ribelli,  tipo L’attimo fuggente  il cui trait d’union è la condivisione dell’immortalità delle opere di  Walt Whitman,     ma la brace che dovrebbe ardere negli occhi dei sovversivi l’ordine istituzionale costituito non sboccia mai in passione e immedesimazione rimanendo freddamente spalmato sullo schermo a “fotografare” l’epoca, non a succhiarne il succo vitale e a vomitarlo in platea. Ben altro ardore, altro coraggio ci vuole per descrivere questo tipo di storie, questa epoca e questi scrittori.
Lo stesso difetto aveva affossato On the road, tratto dal mediocre Walter Salles dal beat dei beat , Jack Kerouac, sintomo dell’incapacità del cinema contemporaneo di confrontarsi con la controcultura degli anni ‘50 che faceva della libertà espressiva e della rottura degli schemi una caratteristica vitale non compatibile con la vile ricerca dell’immediato riscontro di cassa schematizzato da un impianto visivo e narrativo di debosciata medietà. 



Tra citazionismi, mimetismi, meccanicità programmatica della narrazione, spiegoni, flash back esplicativi, ralenti, platealità baracconesche , piacionerie recitative , regia dispersa in squadrettature di esacerbazioni emotive in overacting,  si assiste all’ennesimo, perverso lavoro di distruzione di un mito americano.
Masochismo, questo deve essere il diktat imposto ai produttori degli studios. Riscriviamo la storia rendendola carina , accessibile. Che non puzzi. Che non scuota le menti. Non si sa mai. Chissà. Così che inserendo a sorpresa uno spot di un pannolone per adulti,  nessuno spettatore televisivo noterà la differenza. E’ questo il vero successo di questi film: far contento l’incontinente.
Quando un film nella sua forma tradisce l’anima e il senso della storia che racconta, ecco, quello è un film da evitare.
Da queste parti il messaggio della “Nuova Visione” non è stato minimamente preso in considerazione.

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