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Rush

Regia di Ron Howard vedi scheda film

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La recensione su Rush

di leporello
6 stelle

   La ragione primaria che mi ha spinto a vedere questo film è che ricordavo di aver sentito, ai tempi della sua uscita,  un lungo e ricco encomio nei confronti di Daniel Brühl per il suo meticoloso lavoro sull’accento austriaco da aggiungere all’inglese parlato da Niki Lauda: per un accanito e sistematico sostenitore come me della necessità di fruire del cinema in lingua originale a (più o meno) ogni costo, l’occasione andava colta, e devo ammettere che l’encomio era pienamente meritato.

   Dopo di che, devo anche ammettere che con estrema riluttanza rivolgo la mia attenzione a film di questo genere: blockbusters furbetti ed ammiccanti, americanate stantie ed autoreferenziali, registi acclamati da una folla straripante nella quale non amo confluire se non in casi particolari. E devo anche aggiungere che per chi, come me, adolescente in quell’ottobre del 1976 si alzò la mattina presto che era ancora buio per accendere la televisione sul fatale Gran Premio del Giappone, è piuttosto complicato disgiungere l’emozione che (re)suscita “Rush” dal marasma di antichi ricordi da tutto l’ambaradan artificioso che Ron Howard mette in pista per far diventare “film” quello che un film non sarebbe mai stato: la rivalità/competizione tra Niki Lauda e James Hunt era una cosa troppo seria, anche la Formula 1 era una cosa seria quella volta, quando si vinceva coi sorpassi e non con i pit-stop, e per farlo diventare un film, la “mestieranza” dei registi alla Ron Howard è costretta a condirla con un mucchio di fesserie (una per tutte: il “Come ti chiami?” che rivolge Lauda ad Hunt al termine di una delle loro prime sfide in Formula 3, come se non sapesse benissimo con chi stava parlando) per tentare di rendere epico ciò che epico non è mai stato, non voleva esserlo e non sarà mai.
   Alla fine dei conti, però, bisogna pur considerare che la ricostruzione storica, fotografica, le automobili davvero identiche a quelle originali, oltre ad un bel quoziente adrenalinico presente nelle scene di gara (ma qui, forse, vengo tradito dal mio essere stato adolescente nell’ottobre del ’76) vanno pur ascritte ad un qualche merito che questo film ruffianamente nasconde tra i suoi fotogrammi.
   Se dovessi darne un giudizio da “cinefilo puro”, per me non raggiungerebbe la sufficienza, ma volendosi abbandonare per un attimo all’idea (sbagliata) che il cinema è un tappeto di stelle sul quale distendersi per sognare un po’, allora la sufficienza può tranquillamente considerarsi raggiunta, se non altro in risposta al lavoro encomiabile di Daniel Brühl, e sempre a condizione (irrinunciabile!) di vederlo in lingua originale. 

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