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Viva l'Italia

Regia di Massimiliano Bruno vedi scheda film

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La recensione su Viva l'Italia

di LorCio
6 stelle

L’omaggio alla gloriosa commedia all’italiana dei nostri padri è evidente. Viva l’Italia era il titolo internazione con cui fu commercializzato I nuovi mostri quando fu inopinatamente candidato all’Oscar come miglior film straniero. Rocco Papaleo, poi, ad un certo punto, cita, adattandola, una delle più celebri battute de Il sorpasso (“Chi è ‘sta cicciona?” – “Mia madre.” – “Perbacco! Bella donna!”: riconoscetela), film che comunque non c’entra nulla con questo. Così com’è pure evidente l’allaccio al precedente, fortunato film di Massimiliano Bruno, qui impegnato anche nei panni di un cabarettista che si esibisce in siparietti sulla Costituzione Italiana in un show intitolato La verità ti fa male, verso contenuto nella canzone Nessuno mi può giudicare che dava appunto il titolo all’esordio del attore-regista.

 

La natura duplice di un film ambiguo e furbo come Viva l’Italia sta tutta qui, nel recupero celebrativo di un genere (la commedia all’italiana) irripetibile ed inconciliabile con i nostri tempi balordi, ma tutto sommato accattivante e in qualche modo legato a quella tradizione per motivi soprattutto strutturali, e allo stesso tempo inserito in un contesto di commedie contemporanee discontinue ma propositive e stimolanti (Boris, per esempio). Le questioni strutturali che accomunano il secondo film di Bruno ad una tradizione nostrana sono soprattutto legate al cast.

 

In Viva l’Italia, forse per la dimensione corale non solo della storia ma anche dell’operazione, ci sono pesi massimi del nostro cinema (Raoul Bova, Alessandro Gassman, Ambra Angiolini, Papaleo), un grande classico (Michele Placido), tanti caratteristi (Maurizio Mattioli, Stefano Fresi, Nicola Pistoia, Imma Piro), una manciata di giovani volti eclettici (Edoardo Leo, Sarah Felberbaum, Rolando Ravello, Camilla Filippi), qualche cameo amichevole (Paola Minaccioni, Lucia Ocone, Luca Angeletti, Mannarino, Valerio Aprea, Frankie-HI-NRG MC) e un tris di vecchie glorie (Isa Barzizza, Remo Remotti, Sergio Fiorentini).

 

Un cinema soprattutto romanocentrico, naturalmente. Citarli tutti è un dovere perché sono tutti bravissimi per quanto talvolta sopra le righe (ma è un problema del copione, divertente ma anche non di rado eccessivo specialmente nella prima parte). Le connessioni con la commedia all’italiana finiscono qui, perché, al di là dei temi nazionali attualissimi (la malapolitica, le raccomandazioni, il disincanto, le famiglie disfunzionali), manca di un elemento fondamentale: la cattiveria.

 

È lo stesso difetto già riscontrato nel precedente film del pur abile Bruno.  Nessuno mi può giudicare era un film più che discreto, retto da attori abbastanza in parte, immerso in una realtà sociale attendibile, certo. Ma perché non osare fino in fondo nell’affondare con elegante acidità la lama nel vulnus di una nazione rimbecillita e sopita? Lo spunto iniziale, tra l’altro, con il politico di centrodestra impegnato con una escort colto da una demenza che lo porta a dire tutta la verità, è curioso ma anche deboluccio, così come fragile e forse banale (quasi grillesco) è lo svolgimento del personaggio sulla carta più forte, compreso il finale speranzoso e prevedibile.

 

Il risultato finale, tra scorciatoie buoniste e improvvisate populiste e discutibili (da abruzzese sono ogni volta straziato e sdegnato di fronte alla tragedia de L’Aquila, ma cosa c’entra?), non convince del tutto. Fa ridere per buona parte della narrazione anche grazie a simpatiche volgarità, ma pure per certe battute pungenti (“sono di sinistra, li piace scannarsi tra di loro”) e per situazioni francamente buffe (particolarmente merito di Ocone, Angiolini, Gassman e Mattioli). D’altro canto la demagogia dilaga, il populismo impera, il moralismo si pone sopra ogni cosa. Sono dei difetti che da una parte bisogna accettare perché di fronte ad una commedia contemporanea commerciale non si può pretendere la sottigliezza mirabile di Risi o Monicelli, e dall’altra lasciano abbastanza perplessi perché le ambizioni sono alte e si aggirano più verso In nome del popolo italiano che nei pressi dei più umili Gli onorevoli o All’onorevole piacciono le donne.

 

Bruno ha fiutato l’aria che tira con una notevole bravura, l’ha trasportata in una storia che sembra quei buffet degli aperitivi in cui trovi qualunque cosa ma di non eccelsa qualità e ha costruito un film più complesso di quanto possa sembrare, probabilmente sciupato per un’eccessiva ansia assolutrice nella seconda parte e con un finale che farà la gioia degli indignati da salotto. Si noti, però, l’indubbio gusto pop della contaminazione e dell’accostamento musicale in sede di colonna sonora, che annovera il recente Caparezza estremo alla soavità stoica e burlesca di Mannarino fino all’ormai classica Il mio nemico di Daniele Silvestri e un Ivano Fossati a sorpresa che canta l’azzeccata Ragazzo mio.

 

Manca il capolavoro di De Gregori che dà il titolo al film, ma il clou è un mistico Placido (con il pilota automatico, ma ormai va oltre la soglia della bravura – attualmente come lui, della sua generazione, solo Giancarlo Giannini) che si aggira negli scontri di piazza sulle note di italia di Mino Reitano. Codicillo: c’è l’onorevole Bernini che riecheggia ovviamente Bersani e Ravello è sinistramente simile ad Enrico Letta.

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