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Solo Dio perdona

Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film

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La recensione su Solo Dio perdona

di EightAndHalf
7 stelle

Esotismo costretto e intinto di sangue, inserito a forza in una spirale di violenza che strania e astrae dalla semplice carne, dalla semplice storia, trascende in carrellate oniriche di straordinario fascino, in ipnotiche sequenze catatoniche, che attonite cercano di sconvolgersi di fronte al costante, al ridicolo, al risaputo. Only God forgives di Nicholas Winding Refn è il traguardo del cinema sulla vendetta, quel fenomeno sociale tanto esposto e usurato da migliaia di sguardi cinematografici e che il più delle volte costringe alle crudeltà più disumane e vergognose nella volontà di colmare, con gli ettolitri di sangue versato, il vuoto lasciato da un proprio caro, un conoscente, un oggetto di amore. Nel Male in cui l'uomo si trascina e che invade la purezza istintuale della sua interiorità i luoghi di tortura sono inquadrati da muri alti e in ripetizione, loop costante di fantasie murarie che richiamano le affascinante luci rosse di Bangkok, luogo di perdizione ovattato e asettico, definito fin negli spigoli più insignificanti eppure deformato dalle consumazioni carnali a pagamento (mai messe in scena perché il sesso è lontano dall'essere realmente e passionalmente vissuto). Esistono due Bangkok, quella lynchiana e elegantemente insipida, e quella cittadina, reale: due dimensioni diverse che si confondono e si legano nella tendenza al Male reciproco che accomuna tutti gli esseri umani. La tenerezza è finita, l'erotismo si è racchiuso all'interno di virilità castrate, demolite, ricolme di furia omicida. L'affetto madre-figlio è tensione edipica sottesa al patricidio, nella direzione della demolizione degli affetti più primordiali e, anch'essi, risaputi. Refn quindi cerca, nella scatola emozionale che è l'insieme delle immagini kubrickiane del suo Only God forgives di restituire originalità a un vecchio tema che è sempre stato troppo cinematografico, troppo imprigionato nella finzione. Refn vuole vedere cosa succede all'uomo che risponde realmente all'ideale della vendetta, costante e infinito, del percorso sanguinolento e grandguignolesco che è la sintesi di tutti i rapporti umani, perché la vendetta diventa un nuovo valore coerente con una natura autodistruttiva. 
Il film di Refn racchiude in sé stesso il riassunto di grandissimo cinema del passato, e per questo l'unico ingranaggio che appare poco oliato è proprio il carattere erudito che fa viaggiare la macchina da presa nei dintorni dei palazzi, delle strade e delle grandi sale da pub-ristorante come un Kubrick in trasferta, come un Lynch che ipnotizza, come molti altri registi immobil(izzant)i. Ma il manierismo che il film sfiora più e più volte, nelle infinite carrellate sempre più avvolgenti, è placato dalla creazione effettiva di un nuovo stile, che nell'inferiore Drive esplodeva solo di tanto in tanto senza il potente coraggio di questo nuovo esperimento. Mentre nel precedente film si voleva raffigurare, molto programmaticamente, l'incontro della tenerezza più profonda alla violenza più efferata, qui è tutto meno sincopato, meno isolato, disteso nella stasi perenne di un mondo sulla via dell'Apocalisse, privo di stimoli vitali che riescono ad uscire. Julian fuoriesce da sé stesso, da un suo corpo affascinante come un David di Michelangelo, da un corpo con un pene più piccolo di quello di suo fratello, da delle mani che sprigionano furore ma fanno più sforzo a trattenerlo, per poter di nuovo toccare una donna (quando normalmente viene legato per osservarla masturbarsi). Come in Adrenaline, ma in maniera molto più graduale, il suo volto va plasmandosi, a dimostrazione della sua livida contingenza, e imbruttisce un'anima ferita da una vita criminale che si è fin troppo abbandonata alla (e si è trasformata in) normalità. Se prima Refn, in Drive, voleva conciliare sentimento e violenza (con risultati altalenanti), qui invece cura e analizza il rapporto fra una storia piatta, ripetitiva (com'è ripetitiva la violenza che porta violenza), poco originale, con uno stile meraviglioso e colorato del rosso del sangue, dell'oscurità variegata dei ristoranti, delle luci dei neon, per inquadrare l'atto stesso della sua ripresa, della sua realizzazione cinematografica, che renderà colossale la storia di anime frustrate prossime all'omicidio. Il suo cattivo, un thailandese dotato di katana e amante delle mutilazioni e delle torture, è la macchietta caratteriale che non si esplora perché privo di interiorità; la madre è la distruzione della capacità affettiva ed è semplice provocazione, movimento interessato e tutt'altro che difensivo; Julian è il solo a rivendicare umanità, nei suoi sogni che si confondono tanto (o, meglio, vorremmo che si confondessero) con la realtà, in una storia che solo il Cinema è in grado di rendere grande. Metacinematografico, catartico, imperturbabile, una riflessione sulla violenza maligna che ha perso interesse, si è svuotata di significato diventando una forma vuota, e cerca di farsi riempire da pulsioni diaboliche poco umane e poco disumane, appartenenti a una logica distruttiva che si ripete stancamente come le fantasie murarie dei bordelli, dei pub, degli edifici. L'ultimo (al momento) passo di una cinematografia tesa verso l'onirico più carnale e materiale, capace di osservare il risibile nella maniera più rigorosa, la perdita di significato nella maniera più affascinante e "ripiena". Nell'immagine, la vitalità perduta.

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