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Quelques heures de printemps

Regia di Stéphane Brizé vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Quelques heures de printemps

di yume
8 stelle

L’autoeutanasia assistita, poche pratiche burocratiche, efficienza tutta svizzera, dolce smarrirsi in un sonno che non avrà risveglio: oltre il confine tutto é in regola e legalmente riconosciuto. Questa é la libertà concessa all’uomo. Unica.

Locandina originale

Quelques heures de printemps (2011): Locandina originale

Lui, Alain (Vincent Lindon) esce di prigione per non so quale traffico di droga, roba spicciola da malaffare di quarta serie.

Non é un malavitoso di carriera e pare avesse anche un buon impiego, prima.

A schermo nero una voce elenca gli oggetti restituiti dal carcere, più circa 800 euro che gli spettano.

Poi via, fuori, a riprendere (si fa per dire) un posto nella vita.

A 48 anni, e uscito di galera, al massimo  vai a separare la plastica dal vetro, la carta dalle lattine in un centro di raccolta differenziata. Le prospettive di lavoro nell’era della spazzatura globale sono queste e Alain non ha molte ambizioni.

Se poi hai ancora una madre vai ad abitarci insieme, un tetto comunque c’é e pure un piatto di minestra, poco importa che lei sia venuta solo due o tre volte a trovarti in prigione e che non abbiate proprio più niente da dirvi.

 

Questo é lo scenario, la storia di due vite.

Com’erano, cos’ hanno fatto prima, come vivevano, cosa é successo tra loro?

Niente, tutto svanito come neve al sole. Resta qualche ora di primavera da vivere, residuo senza valore da spendere in un tempo vuoto che bisogna comunque attraversare, far scorrere in qualche modo perché ci si trova lì, la vita ancora pulsa, si deve cucinare, rigovernare casa, mangiare, dormire, magari far l’amore, se capita la ragazza che ci sta, soddisfare i bisogni elementari senza i quali saremmo finalmente liberi.

 

Perché una scelta di libertà c’é, é possibile.

 

E Yvette (Héléne Vincent) la madre, la mette finalmente in atto, ora che una malattia terminale ha segnato la sua scadenza.

Decisione presa da sola, perché é una donna sola, un tempo moglie di un marito dal carattere “maledettamente difficile”, madre di un figlio che se ne va in galera e il silenzio tra loro é sceso da troppo tempo.

Non le resta che completare il puzzle con quel fedele vicino di casa, sistemare casa con l’ordine maniacale che contraddistingue il novanta per cento delle donne sole, infine prendere quella decisione quando le analisi peggiorano.

Perché ci si può rifiutare di soffrire oltre ogni umana capacità di sopportazione, di vedere il proprio corpo decomporsi ancora in vita e la dignitosa compostezza dei gesti e delle forme violata dall’oscena malvagità della malattia.

L’autoeutanasia assistita, poche pratiche burocratiche, efficienza tutta svizzera, dolce smarrirsi in un sonno che non avrà risveglio: oltre il confine tutto é in regola e legalmente riconosciuto.

Questa é la libertà concessa all’uomo. Unica.

 

Vincent Lindon, Hélène Vincent

Quelques heures de printemps (2011): Vincent Lindon, Hélène Vincent

Ma come dire tutto questo, che é tanto, é sconvolgente, é inaccettabile benché vero nella sua brutalità?

E, soprattutto, come dirlo in tutta onestà? Come evitare di sommergere la platea di immagini ostentatamente significanti?

 

Stéphane Brizé ha il coraggio di farlo, e sceglie la cosiddetta gente comune, quella che non lascia tracce nell’arte, nella cultura, nella storia, neanche in quella del proprio quartiere.

Siamo in Borgogna e non in un lussuoso appartamento da intellettuali a Parigi, questa gente non ha petali di fiori da spargere sui morti né Brizé escogita riprese oniriche per suggestionare la platea.

Il piano-sequenza prevale, uno spazio cinematografico da cui emerge la vita autentica, in corso d’opera.

La stilizzazione estrema delle riprese, l’aridità esistenziale delle vite messe in scena, la disfatta sentimentale di qualcuno ancora portatore sano di sentimenti vitali (il vicino di casa, la ragazza del bowling), tutto ha il sapore della vita vissuta dalla stragrande maggioranza delle persone di questo mondo, ed é quello che fa di questo film qualcosa che vale.

 

Non ha fatto saltare il botteghino né gli sono piovute addosso nomination, uscito nel 2012 ha avuto la vita breve delle meteore, benchè abbia un cast favoloso e una lunga serie di pregi che val la pena di elencare.

 

Intanto la durata che, lavorando per sottrazione,resta dentro i sapienti confini dei 100 minuti o poco più, oggi ampiamente dribblata a dispetto di qualsiasi teoria sulla curva dell’attenzione (20 minuti, che per il cinema diventano l’ora e mezza, tutto il di più é spesso una sfida alla platea).

Vincent Lindon

Diary of a Chambermaid (2015): Vincent Lindon

Il cast: amalgama perfetto, difficile dire chi sia più bravo dell’altro, ognuno dei tre (Lindon, Vincent, Seigner) si cala nella parte comunicando l’incomunicabilità a livelli sublimi, e il gioco degli occhi, il tocco appena avvertito di una mano, una frase breve per riempire un vuoto molto pieno di tanto che non si sa dire, tutto collabora alla pienezza di un film che ha la stessa incompletezza della vita.

"La vita é fatta di parole, silenzi ed esitazioni. E come nella quotidianità ho la tendenza a non riempire la vita di troppe parole inutili, così al momento di filmare, per onestà, poiché tento di captare momenti di verità, non posso sfuggire a questi silenzi.

Così dice Brizé che sottolinea “l'importanza delle relazioni tra un uomo e una donna, la difficoltà di parlare di sentimenti e di essere aperti agli altri e la necessità di un cambiamento nelle vite dei personaggi.”

 

Necessità di un cambiamento: é il fulcro, ma bisogna guardare al microscopio per avvertire questo che, pure, é il senso della vita, l’orizzonte di ognuno, la segreta speranza spesso inconsapevole di tutti.

Perché la vita non si racconta, non é fatta di beau geste, ma di secondi, uno dietro l’altro, che sembrano tutti uguali.

Ma se pure tutto sembra sempre uguale, c’é sempre molto che val la pena di guardare da vicino.

 

Lei ha un cancro terminale, ha preso una decisione importante che porterà fino in fondo.

Lui é il figlio quarantottenne uscito di prigione, nullafacente e nullatenente, che ha tutta la malinconia del mondo negli occhi, ma il massimo che riesca ad esprimere é l’amore per la cagna di casa e un’anaffettività verso gli altri che é solo apparenza e difesa.

L’altra é bella e sensuale, semplice e carica di un’affettività contagiosa, ma resterà solo la compagna di qualche notte.

C’é infine la clinica in Svizzera dove si va a morire, un piccolo, ridente chalet immerso in un verde da cartolina, con ansa di fiume sullo sfondo.

Fiori nella tappezzeria e sapore d’arancia nella bevanda mortifera sono il tocco di genio, perché é esattamente quello che ci aspettiamo da una clinica in Svizzera, né più né meno.

 

Il pudore, l’asciuttezza nel parlare di vita e di morte sono ineguagliabili.

A visione ultimata sentiamo che nulla di quanto abbiamo visto ha subito manipolazioni né rigonfiamenti emotivi, eppure c’é passione, l'anima si stringe, rappresentare quella solitudine così la rende palpabile.

Così vuol dire madre e figlio seduti a mangiare in stanze diverse, lui che si vergogna del suo passato e tace con la ragazza, e allora si separano, e un giorno lei gli dirà “Coglione”. Vuol anche dire riempire il tempo di gesti consunti, ripetitivi, avere gli occhi vuoti e solo per un attimo, un flash di pochi secondi, rannicchiarsi sul letto a piangere.

 

Val la pena di citare ancora e sempre Deleuze quando ci si imbatte in opere così:

 

"Qualcosa di strano m'ha colpito nel cinema: la sua attitudine inaspettata a manifestare, non il comportamento, ma la vita spirituale (come pure i comportamenti aberranti). La vita spirituale non é il sogno né il fantasma, che sono sempre stati un vicolo cieco per il cinema, ma il dominio della decisione fredda, della caparbietà assoluta, della scelta dell'esistenza. Come mai il cinema è così adatto a scavare nella vita spirituale? (...) Il cinema, insomma, non mette il movimento soltanto nell'immagine, ma lo mette anche nello spirito. La vita spirituale é il movimento dello spirito. Si passa spontaneamente dalla filosofia al cinema, ma anche dal cinema alla filosofia"

 

Pensare che sia un film per sostenere l’eutanasia volontaria, definirlo “Grande spot, non si capisce quanto intenzionale e quanto sfuggito di mano, per l'associazione Dignitas […]litigi tra una madre antipatica che o pulisce casa o sbuccia mele per la composta e un figlio uscito di galera. Altrettanto antipatico e taciturno. Perché si abbraccino dicendosi 'ti voglio bene' bisogna che accada l'irreparabile” ( Il Foglio, Mariarosa Mancuso, 8 agosto 2012) é stupefacente.

Si rispetta ogni parere ma si resta basiti lo stesso.

 

"Difendo qualsiasi tesi- dice il regista - Non mi sento di negare qualsiasi legittimità di esprimere un parere su un argomento come questo. È una decisione che appartiene a tutti. È una domanda infinitamente intima che tocca la profondità dell'individuo

 

Quella ricerca puntigliosa di ordine della donna, fino all’ultimo, (“Ti ho dato le chiavi di casa?” chiede al figlio mentre sta per morire), é la sua personale declinazione di una disperazione che non ha sbocchi né speranza.

Impercettibili variazioni emotive (“Alain!” chiama dal pianerottolo quando un rumore sulle scale le fa credere che il figlio sia tornato, dopo quella lite terribile, quando lui le ha detto “Crepa con il tuo cancro”) sono leggerissime annotazioni in punta di penna.

Quel che manca é l’amore nella forma giusta, quella che ci rende capaci di dirlo all’altro.

Quando non c’é quella specie di amore,  e neppure il corpo é più capace di reggere, un’ asettica clinica svizzera in qualche ora di primavera val bene il viaggio.

Paola Di Giuseppe

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