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Pietà

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Pietà

di supadany
8 stelle

Primo film vero e proprio (per forma e per lavorazione) di Kim ki-Duk dopo la disavventura/avventura sul set di “Dream” (2008) e dopo lo spartiacque rappresentato da “Arirang” (2011), un vero e proprio (inizio di?) nuovo corso che non perde il gusto della composizione, per quanto sguazzante nel marciume, addentrandosi nella violenza e in quotidiano contemporaneo e tangibile.

Kang-Do (Lee Jung-Jing) è un giovane uomo che lavora come strozzino senza alcuna pietà, almeno fin quando non si presenta alla sua porta una donna (Cho min-soo) che dice di essere la madre che non ha mai conosciuto.

Dopo i primi tentennamenti, si lascia andare, ma questo comporterà anche una debolezza che le sue vittime potrebbero utilizzare contro di lui.

 

 

Un Kim Ki-Duk diverso, che ritrova per strada qualche frammento del suo passato, questo soprattutto lungo il finale, ma che risulta soprattutto lacerante, sicuramente ancora una volta ricco di aspetti centrali, anche se probabilmente a volte è (inutilmente) eccessivo nell’evidenziare soprattutto i tratti di Kang-Do, che comunque delle trasformazioni notevoli, e, più secondariamente, quelli delle sue vittime.

Difetto che non tange invece la figura della madre interpretata da Cho Min-soo, figura melodrammatica che si spinge oltre i confini delle semplici percezioni, con un percorso che s’impressiona, e trasfigura, su pellicola e nella memoria (umana) con un’interpretazione degna di un cavallo di razza della recitazione capace di riassumere un ampio spettro di caratteristiche.

E i due personaggi si muovono su di uno scenario ricco di sponde e di rimandi; il capitalismo, con il denaro, che soppianta il nobile impiego (con l’umiltà che lascia il campo a necessità istantanee, vedi il padre che chiede un prestito solo per accogliere il prossimo nascituro), carnefici e vittime tra andata e ritorno, violenza senza pentimenti e dolore capace di lacerare profondamente, la vendetta con una costruzione spiazzante, probabilmente l’espediente più riuscito di quest’opera assieme alla parte finale che comunque si ricollega ampiamente con la stessa.

Un’opera che sa essere feroce, ma anche intima, che sa mutare pelle, vissuto da qualche eccesso debordante, ma anche, e soprattutto, capace di mostrare la vitalità di un autore che dopo una crisi personale è tornato con la voglia di fare cinema.

Un cinema in buona sostanza diverso da quanto mostrato nella prima parte della sua carriera, ma subito baciato dalla fortuna (“Leone d’oro” al Festival di Venezia 2012), con un gran vigore che a volte forse appanna un po’ la vista, ma per lo più rende tutto tremendamente vivido.

Folgorante (con qualche sbandata).

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