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Pietà

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Pietà

di Peppe Comune
8 stelle

Lee Kang-do (Lee Jung-jin) lavora come "esattore" per conto di un'organizzazione malavitosa che opera nel campo dell'usura. Agisce in maniera del tutto autonoma e usa metodi molto violenti per costringere i "clienti" insolventi a restituire quanto avuto in prestito. La sua specialità è quella di rendere invalidi i malcapitati di turno in modo da consentirgli di estinguere il debito con i soldi ricevuti dall'assicurazione che copre gli infortuni sul lavoro. Kang-do vive solo e non ha nessuno al mondo. Un giorno nella sua vita si presenta Jang Mi-sun (Jo Min-su), una misteriosa signora che dice di essere la madre che lo ha abbondonato molti anni fa e, per questo, di essere la responsabile del demone della violenza cieca che si è impossessato di lui. Dopo i primi momenti di diffidenza, Kang-do si lega alla donna e finisce per provare delle sensazioni affettive che non aveva mai provato per nessuno.

 La «Pietà» di Kim Ki-Duk tra vendetta e perdono

Pietà - Scena

 

 

"Pietà" (Leone d'oro a Venezia) di Kim Ki-duk è un film che parla dell'incapacità di ognuno di chiedere e concedere perdono, un'incapacità che ha radici remote e dei tentacoli che si espandono in ogni dove, ma che è nel nostro tempo che ha legato le sue sorti alla fascinazione "demoniaca" del denaro. Kim Ki-duk sceglie una strada più lineare e meno "poetica" questa volta, agendo anche per simbolismi, ma legandosi più direttamente alle pulsioni sentimentali della nostra contemporaneità. Lo fa alternando ad una prima parte stile "noir", caratterizzata dall'esibizione minuziosa di tanta crudele e gratuita violenza, un finale dove la straziante esplosione del tragico arriva a concedere un po' di calore umano ad una storia tinta di rosso sangue. Appurato il legame "filologico" tra il titolo del film e il capolavoro scultoreo di Michelangelo e accertao, dopo la visione, che il sentimento della pietà mai arriva a cambiar rotta agl'insani intendimenti che i protagonisti di questo film vogliono porre in essere, direi che l'intenzione dell'autore sudcoreano è stata quella di certificare l'avvenuta morte della bellezza per mano di un'aridità dei sentimenti che sta compromettendo senza rimedi l'anima del mondo. La bellezza è armonia delle forme, etica dello sguardo, elevazione dello spirito, sacro rispetto per il prossimo. Kim Ki-duk, invece, ci porta in ambienti disadorni e inospitali, tra ferraglia arruginita e attrezzi da lavoro ormai vetusti (cesoie, trapani a colonna, presse, tornii), accumuli di roba vecchia che sta li a certificare lo stato di latente decomposizione di un intero mondo. Un mondo che sta per essere spazzato via dal sopraggiungere imperioso della speculazione edilizia e che ad una giustizia compassionevole buona per tutti preferisce un giustiziere che fa valere senza indugi la contemporanea legge del più forte. Un mondo dove si finisce per chiudere bottega a causa dei disavanzi affettivi accumulati e dove le mutilazioni corporali impressi sul fisico e nella mente marchiano a fuoco la dismissione dell'umanesimo. In un siffatto mondo, il denaro diventa "l'inizio e la fine di tutte le cose. Amore, onore, rabbia, violenza, odio, gelosia, vendetta, morte". Il metro da cui poter misurare, nelle gerarchie sociali, il grado di ricattabilità di chi sta sotto e il livello di crudeltà di chi è sopra. Un percorso a tappe che ha reso obbligatoria la sua ragion d'essere e che Kim Ki-duk , come scrive Spaggy nella sua recensione,"traccia inesorabile senza possibilità di redenzione alcuna". Questa centralità attribuita al valore dei soldi è funzionale per una riflessione "bressoniana" sul sopravvento dell'edonosmo sull'umanesimo. Ma se in Robert Bresson (e penso soprattutto a "L'argent", ma anche a film come "Pickpocket" e "Il diavolo probabilmente") la centralità attribuita al valore denaro è il frutto di una "scristianizzazione" della società che di fatto ha prodotto l'emergere di rapporti sociali votati al completo materialismo, in questo film, il valore attribuito ai soldi, serve a far emergere la natura archetipa di taluni comportamenti umani regolati secondo il più classico rapporto di causa effetto : come l'amore che fa sorgere la compassione, la troppa solitudine che degenera in violenza e la morte che scaturisce dalla vendetta. Kang-do e la donna rispondono perfettamente a questa natura e conducono il loro particolare viaggio agl'inferi seguendo per intero l'unica strada possibile : quella che non può e non deve conoscere pietà. Kang-do è la faccia di un potere anonimo che vende soldi per schiavizzare i loro compratori, è l'artefice di un male sistemico che miete le sue povere vittime con ordinaria semplicità. Agisce da solo e con sadica precisione, non prova il benchè minimo rimorso perchè la solitudine lo rende immune dalla paura della vendetta. La donna vuole colmare una solitudine durata troppo a lungo ("caro, non sei più solo adesso", dice al figlio in maniere solenne) e perciò intende far conoscere all'altro il peso opprimente dell'abbandono. Lei è la dimostrazione che in questo mondo, ognuno, vittima o carnefice che sia, si rende partecipe di una più generale perdita dell'innocenza. La determinazione con cui cerca d' indirizzare i sentimenti che porta in grembo verso l'esito predefinito, è quella di una donna che per troppo amore non ha potuto recare pietà. I suoi occhi intrisi di dolore conservano la sacralità di una bellezza che cerca il suo riscatto. É quanto di più sublime ci rimane di questo bel film di Kim Ki-duk.

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