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Pietà

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Pietà

di ed wood
6 stelle

Maledetto Kim Ki-Duk! Come hai potuto tirare fuori dal cilindro un finale così intenso, struggente, poetico, complesso, ispirato, sconvolgente, dopo un’ora e mezza così deludente?! E’ proprio vero che Kim è capace di tutto: di intuizioni geniali come di uscite improponibili, di raffinate sperimentazioni formali come di trasandata sciatteria, di densità tematica come di sconcertante aridità. “Pietà” è un film piuttosto diverso da ciò a cui KKD ci aveva abituato, da vari punti di vista: narrativo, testuale, stilistico etc…Anzitutto, abbandona la consueta struttura circolare, o meglio “a spirale”, del Tempo per cui gli eventi finiscono per riproporsi ciclicamente con piccole, ma decisive variazioni di gesto e di senso; al suo posto, troviamo un apologo che ha le cadenze della tragedia, pur senza dimenticare una calibrata vena grottesca (d’altra parte, il ridicolo e il sublime vanno di pari passo nella poetica del coreano). C’è più dialogo, inoltre, rispetto al solito e purtroppo la penna non è stata delle più leggere: troppa enfasi retorica, troppe frasi fatte sui temi superficiali del film (“I soldi sono l’inizio e la fine di tutto” e via banalizzando). Poi c’è lo stile, in larga parte diversissimo dai film precedenti. Viene a mancare, ad eccezione dello splendido finale, quella ricerca visiva, quel gusto della sintesi e della sineddoche, quei giochi di riflessi su pareti traslucide, quello studio del personaggio nell’ambiente, quella manipolazione della natura, che avevano reso opere come “Soffio”, “Arco”, “Ferro 3” splendide pagine di cinema (senza mai scadere nell’estetismo gratuito). Tuttalpiù, Kim si autocita, fra animali in preda alla barbarie umana, strumenti di riproduzioni visiva, perversioni varie etc…Al posto di questo mai domo lavorio formale, troviamo invece un’estetica cruda, rozza, trasandata, decisamente “fisica”. Kim si avvale di zoom, sciabolate, inquadrature casual che riecheggiano il famigerato Dogma95; in una scena, la mdp reagisce tremando ad un paio di schiaffi fuori campo. Probabilmente si tratta di una scelta voluta. Come a dire: nel mondo disumano del capitalismo avanzato, tutto conchiuso fra le coordinate di famiglia, lavoro, soldi, violenza, non c’è spazio né tempo per alcun concetto di “bellezza”. Non c’è posto nemmeno per la creatività, per l’Arte. Né ovviamente per il Cinema. Da questo punto di vista, “Pietà” segna una svolta notevolmente pessimista nel Kim-pensiero. Se ad esempio in “Soffio”, arti come la musica e la scenografia potevano riscattare il male di vivere e regalare fugaci momenti di serenità, qui c’è spazio solo per tristi e scialbe inquadrature dominate dalla fitta oggettistica di metallici strumenti tanto di lavoro quanto di tortura (e qui però, l’a-simbolista Kim adotta in pieno un chiaro registro metaforico: d’altra parte il suo cinema è sempre perfettamente in bilico fra concretezza ed astrazione). Quello che però bisogna rimproverare al regista è l’aver adottato un registro troppo tendente al patetico per rappresentare le tormentate vicende dei due protagonisti, l’usuraio e la “madre”, che di certa non ha aiutato a valorizzare una sceneggiatura poco brillante. Per non parlare della vena stanca con cui vengono girate le sequenze di violenza e sesso. Ma se, come scritto sopra, l’Arte (e il Cinema) nulla può contro l’alienazione capitalista, restano le persone, i loro sentimenti, gli affetti, i legami familiari. Kim ribadisce una fede incrollabile nei valori più istintivi del genere umano, come l’amore per un figlio o una madre. Purtroppo però non si tratta di una presa di coscienza priva di tormenti e contraddizioni: ciò che genera il sentimento non è tanto il legame di sangue, quanto l’idea di madre/figlio. E quello che viene inteso come Amore, disinteressato e totalizzante, è in realtà meticoloso e insano desiderio di vendetta. “Pietà” è un titolo antifrastico rispetto ai contenuti di un film in cui non viene praticamente ucciso nessuno: solo brutalmente ferito, reso invalido, indotto al suicidio. Chi non regge più il peso della vita, deve cercarsela da solo, la morte. Kim rappresenta una umanità priva di pietas, dove si è disposti a morire pur di far soffrire chi si odia. Salvo poi scoprire che, forse, non era odio, ma amore. Ecco il paradosso di Kim, l’ennesimo della sua comunque imprescindibile carriera. E si torna quindi al disappunto per un film che avrebbe potuto, dovuto, essere migliore, più intenso, ma anche più misurato. Quel finale però, quella soggettiva alle spalle della “madre”, quella donna che giace a terra coi suoi due “figli”, quella scia di sangue lungo l’autostrada ci tranquillizzano: Kim ha ancora parecchie cose da dirci sulla condizione umana.

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