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Pietà

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Pietà

di spopola
9 stelle

Un’altra parabola esemplare che medita sul drammatico destino a cui sono condannati i protagonisti della storia in un mondo che sembra definito e circoscritto dalla reciprocità del dolore e dominato dalla violenza e dal denaro. Il film nel suo implacabile incedere è spesso persino disturbante, ma è in questo essere estremo che risiede il suo valore

Qui non approfondisco solo argomenti come il perdono o la vendetta, ma intendo narrare vari aspetti legati all’essenza umana che stiamo perdendo. E forse voglio meditare anche sulla salvezza, che può essere ottenuta recuperando alcuni valori (Kim Ki-duk).

 

Dopo una lunga pausa di riflessione (la spiazzante, dolorosissima parentesi di Arirang , una specie di videoconfessione con la quale il regista si è messo impudicamente a nudo), Pietà (Leone d’oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia con qualche strascico polemico) è il titolo con cui Kim Ki-duk è tornato clamorosamente al cinema a soggetto con una nuova e tragica vicenda che ha come tema centrale quello della vendetta (che attraversa per altro una grossa fetta del cinema di matrice coreana, e che proprio per questo forse dovrebbe indurci a fare una seria riflessione sulle ragioni profonde da indagare a fondoche stanno alla radice di quella che, più che una scelta, appare una sentita e irrinunciabile necessità prioritaria non solo dei singoli autori, ma della nazione stessa).

Il titolo potrebbe sembrare quasi un ossimoro se si considera la brutale durezza del racconto, ma alla fine, proprio per la densità sfaccettata delle situazioni, si conferma invece la maniera migliore (o per meglio dire, riesce a diventare il giusto tramite) per connotare l’opera e definire il senso del suo spietato atto d’accusa: non c’è spazio per la pietà, e la nostra società contemporanea  – e quella coreana in particolare – è qui per confermarlo.

Un’altra parabola insomma che medita sul drammatico destino a cui sono condannati i protagonisti della storia in mondo che sembra definito e circoscritto soprattutto dalla reciprocità del dolore e dominato dalla violenza e dal denaro: i protagonisti – sono parole del regista – rappresentano la mia visione del mondo in un periodo specifico e in una vicenda in movimento. La loro diversità che si acquisisce nel corso della narrazione, dipende dai cambiamenti che subisce il mio sguardo via via che vengono esplicitati i differenti conflitti e si palesano con il loro volto.

Felicissimo ritorno dunque il suo dopo tre anni di silenzio e di inattività e la parentesi più strettamente intimista e autobiografica delle ultime pellicole (non solo Arirang, ma anche Amen): di nuovo fuori dalla rarefazione di quell’alveo quasi monastico in cui si era rifugiato (decisione evidentemente sofferta, ma necessaria, e forse davvero l’unica possibile per “depurarsi” e  rigenerarsi), Kim Ki-duk torna a confrontarsi con la realtà e ritrovarsi così di nuovo immerso in un universo sempre più corrotto dove il dio denaro sembra davvero essere l’unica logica vincente per esistenze stimolate e corrotte dalla voglia di arricchirsi a ogni costo, senza guardare in faccia nulla e nessuno.

Ancora una volta implacabilmente terribile nel suo incedere, il film potrebbe sembrare persino disturbante in più di un tratto per qualcuno (compresa la terribile conclusione), ma è a mio avviso l’unica maniera (o quella strettamente necessaria) per far comprendere l’abisso sull’orlo del quale tutti siamo appollaiati in bilico, pronti a caderci dentro al primo, più impetuoso soffio di vento, e farci di conseguenza constatare che è certamente questa una verità abbastanza scomoda da ammettere ed accettare, ma diffusa, grottesca, e in via di ulteriore espansione con la quale è indispensabile fare i conti e guardarla con coraggio in faccia. Un modo di intendere la vita che Kim Ki-duk condanna senza appello e che rappresenta con un’eccessività cruda e mostruosa, che questa volta tocca (o per meglio dire “lambisce”) tabù inenarrabili (e decisamente difficili da tratteggiare) come quello dell’incesto, che qui va  forse letto però come la caduta estrema, il crollo di ogni forma morale e di autocontrollo.

Ed è così allora che l’Eros (qui visto più come amore materno che come atto carnale), finisce per  intrecciarsi inesorabilmente a Thanatos (da intendersi anche come morte metaforica dell’anima, oltre che fisica), un dittico spesso indistricabile che qui si trasforma in un quadro doloroso della vita, proprio come è doloroso appunto il senso di pietà di una madre nei confronti del figlio sofferente. Un rimando specifico al peccato di abbandono che deve essere espiato con la dedizione succube della schiavitù e dell’osservanza che ha il suo riscontro nel conflitto fra natura, libertà e costrizione sul quale vengono costruiti i legami (non solo quelli di sangue) e l’oltraggio dello stupro.

Il richiamo esplicito alla passione del Figlio per eccellenza, che già dal manifesto viene proclamato con gran forza, aggiunge una solennità maggiore alla storia, proclamandone l’universalità e l’esemplarità: il sacrificio della madre (e quello di ogni madre) si contrappone alla piaga dell’anima che affligge il figlio (metafora di una società intera, alle prese con lo scabroso degrado in cui è scandalosamente sprofondata).

In fondo allora anche questa è una storia fatta di corpi che si sostituiscono a vicenda, presenze fantasmatiche che ricevono la consistenza delle attese e delle nostalgie per poi sfumare nella realtà. L’affiancamento che la “madre” desiderata/rifiutata effettua, risponde  alla pulsione coercitiva  che caratterizza le relazioni in gran parte delle opere di Kim Ki-duk, e che qui trova nella neutralità di un “non figlio” il suo rispecchiamento. I due sono chiaramente reciproci nella loro funzionalità ribaltata: lei genitrice partorita dalla spietatezza del giovane strozzino, lui figlio che inconsapevolmente suscita la sua nemesi, l’uno unito all’altra nel segno di un bisogno d’amore creato dall’assenza dell’amore” (Massimo Causo). Il regista ci mostra però anche il rimosso di una società (quella dove si muovono tali figure) che, come ho già accennato, è prioritariamente votata al denaro, al profitto, alla violenza di un consumismo capitalista attraentemente “scintillante” (ma solo in superficie) che si trasforma  in un viaggio che è un vero e proprio scandaglio del lato oscuro  dell’uomo e una discesa agli inferi senza ritorno (a me sembra così, nonostante che il regista parli anche di “perdono” e di “salvezza”).

 

Entrando nei dettagli del racconto, il protagonista è Kang-do, spietato tirapiedi di uno strozzino che esercita il suo ruolo di “esattore” con violenza inaudita, straziando e mutilando le sue vittime senza alcuno scrupolo o rimorso di coscienza. Quando un giorno bussa alla sua porta una donna (Min-so) che dichiara di essere la madre che l’ha abbandonato ancora in fasce, l’uomo è costretto suo malgrado ad entrare in rapporto con lei, ma solo per sottoporla a prove cariche della stessa cieca ferocia che pone nello svolgimento del suo lavoro. La donna sembra però essere fermamente determinata ad espiare la sua colpa e sopporta di conseguenza le angherie e i “soprusi” con stoicismo, accollandosi la responsabilità della mancanza di morale del figlio. A poco a poco comunque Kang-do inizia ad accettare la presenza della donna nella sua vita e a provare sentimenti fino a quel momento sconosciuti, ma le cose non stanno proprio come sembravano essere all’inizio, e le circostanze (oltre al destino) riserveranno altri inaspettati dolorosi risvolti, e all’uomo una tragica sorpresa che si definirà nella catarsi di un finale crudelmente punitivo e di straordinaria potenza visiva.

 

Intensamente strepitosa la prova dei gli attori (Lee Jung-jin e Jo Min-soo) qui davvero impegnati “anima e corpo” dentro a una “rappresentazione” delle cose che nell’impostazione anche visiva,  predilige gli spazi chiusi (la casa del carnefice, le officine delle vittime) con poche concessioni a ciò che accade “fuori”, dentro al mondo esterno, il che accresce notevolmente la claustrofobia della “chiusura” e dell’isolamento che fa di questo film un’opera davvero singolare e soprattutto emotivamente coinvolgente.

Voto: ****½

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