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Pietà

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Pietà

di giancarlo visitilli
8 stelle

Nel suo diciottesimo film (ci tiene molto a ricordarcelo lo stesso regista), Pietà, Leone d’Oro all’ultima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Kim Ki-Duk affronta in modo totalizzante e personale il tema della pietà. Attraverso la storia di un uomo che vive facendo lo strozzino e che minaccia in modo brutale la povera gente per intascare gli ingenti rimborsi dovuti agli usurai che lo hanno ingaggiato. Quest’uomo, senza una famiglia propria, ha causato sofferenze tremende a moltissime persone, costringendole ad avere incidenti sul lavoro per riscuotere il premio assicurativo. La sua, una vita spietata, senza alcun timore. Un giorno, una donna gli compare di fronte, dice di essere sua madre. Da principio, la scaccia via con freddezza, ma poi, con il tempo e la condivisione del viaggio, la accetta. Anche per questo, egli decide di abbandonare il lavoro crudele, e di vivere una vita rispettabile. Inaspettatamente però la madre viene rapita. Immaginando che il responsabile della scomparsa sia una delle persone da cui lui intascava soldi, l’uomo comincia a rintracciare tutte le persone che ha maltrattato. Alla fine trova il responsabile, solo per scoprire che questo ragazzo si è suicidato molto tempo prima e che la donna, in realtà, è la madre della vittima. Infatti, la donna ha inscenato il rapimento per vendicarsi. E nonostante la pietà che è arrivata a provare nei confronti dell’uomo, come madre, decide di compiere la propria vendetta e assassinarlo nel profondo dell’anima.

Non siamo agli stessi livelli di bellezza, di scrittura e di regia di Ferro 3, ma è incredibile come, ancora una volta Ki-Duk dimostri di saper costruire storie con la stessa pazienza con cui i bambini costruiscono i loro immaginari con i Lego: ti sembra di non capire nulla, mentre loro attaccano un pezzo all’altro. Alla fine, tutto torna. Ecco il genio di un cineasta capace di offrire ad ogni inquadratura una sua particolare dimensione, di declinare continuamente registro, dal cinico al drammatico, dal tragico al grottesco. Con estrema crudezza imbandisce fotogrammi che colpiscono direttamente lo sguardo interiore: ci saranno scene in cui è difficile sopportare la visione estrema delle immagini. Ma tutto rientra nell’economia del regista coreano, che pone la meravigliosa cornice alla storia, utilizzando la povertà del quartiere Cheonggyecheon, a Seoul, popolato da artigiani o operai in fatiscenti officine. Tutto emana pietà: gli esseri umani, gli animali, finanche gli oggetti inanimati. I due protagonisti, un figlio orfano e una madre che sarà lei stessa la protagonista della perdita di un figlio, ripercorrono una strada, una sorta di via crucis, su cui ciò che li accomuna è la scoperta dell’impossibilità a compiere il bene.

Il cinquantaduenne regista coreano continua a imbastire un romanzo in cui il tema del riscatto sociale assume sempre più i contorni di una verità agghiacciante: i piccoli artigiani, gli operai stipati nelle piccole fabbriche, abitanti in quartieri di miseria, non hanno diritto alla pietà, ma solo ad essere compatiti. Tant’è che nel film di pietà non ce n’è per nessuno, semmai solo la perdita di dignità, in nome del dio denaro. Tutto ciò raccontato sin dalle prime immagini, attraverso la sproporzione che appare evidente in ogni luogo, finanche nel gigante e la bambina, la coppia protagonista, con il gigantesco ragazzo e la minuta signora. La mancanza di pietà, a dismisura.

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