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Quel che sapeva Maisie

Regia di Scott McGehee, David Siegel vedi scheda film

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La recensione su Quel che sapeva Maisie

di OGM
8 stelle

Terza trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Henry James. Il dramma della figlia di due genitori separati, da lui immaginato nell’ormai lontano 1897, era già stato portato sullo schermo nel 1968 e nel 1976, e, dopo oltre un secolo, risulta ancora di estrema attualità. Maisie è solo una bambina, quando sua madre e suo padre, dopo una serie interminabile di litigi, decidono infine di porre fine alla loro relazione. In quel momento la piccola diventa oggetto di contesa, in un’assurda battaglia legale che contrappone due individui ugualmente inadatti ad occuparsi di lei, soprattutto perché eccessivamente intenti a promuovere le rispettive carriere e a curare i propri interessi personali. In conseguenza delle loro manchevolezze e prolungate assenze, i loro nuovi compagni, entrati nella vita di Maisie come sgraditi intrusi, finiranno per assumere il ruolo di genitori sostitutivi, capaci di creare, intorno a lei, un’atmosfera di unità, di armonia e di serenità affettiva. Questo è il paradossale sbocco di una vicenda che, per quanto improntata alla divisione e alla diffidenza, in sé non ha nulla di veramente contraddittorio: è solo una storia di ordinario egoismo, articolata secondo i collaudati schemi dell’intreccio amoroso che nasce e si sviluppa nel bel mezzo di una grande confusione. Il sentimento, imprevedibile e fuori dai canoni, si fa strada attraverso i pasticci causati dalla colpevole distrazione con cui i due protagonisti negativi, Susanna (Julianne Moore) e Beale (Steve Coogan), sono soliti trattare le cose del cuore. Sul canovaccio ottocentesco, che ama giocare con le coincidenze che fanno da fatale catalizzatore alla passione, si inserisce la modernità di una vita irregolarmente divisa tra impegni familiari ed ambizioni personali: una distinzione che la rivoluzione dei costumi ha reso tortuosa, trascinando nel territorio del dubbio la stessa definizione di matrimonio. Ad essere messa in seria discussione è soprattutto la sua funzione sociale, che sembra essere adattabile alle varie situazioni: per Beale, che lascia la sua convivente per sposare la  babysitter Margot, lo scopo del gioco si mantiene, in forma più o meno ermetica, entro i confini delle motivazioni personali, di possesso o di rivalsa. Per Susanna, per contro, che in un attimo sceglie, come nuovo marito, il giovane barista Lincoln, l’operazione ha l’aria di una manovra strumentale, finalizzata,da un lato, a regolarizzare la sua posizione davanti al tribunale dei minori, dall’altro, ad assicurarle un aiuto nella difficile impresa di allevare Maisie, un compito nel quale non si è mai dimostrata molto abile. Nessuno dei due, né lei, né l’ex compagno,  si preoccupa dell’aspetto (poco) romantico della faccenda; e forse, in effetti, è vero che il problema non va cercato nella mancanza d’amore o nell’incompatibilità di carattere. Il nocciolo della questione è l’incapacità (o la non volontà)  di fare funzionare un rapporto, una famiglia, di interpretare coscienziosamente un ruolo diverso da quello professionale, o che, più in generale, non sia strettamente legato all’affermazione individuale. In questa storia, Susanna e Beale sono i due io in lotta per se stessi; Maisie, Margot e Lincoln sono gli altri: una figlia e due estranei accomunati dalla stessa sorte di accessori, in parte utili, in parte scomodi, di esistenze impostate su un registro egocentrico, prive di una reale programmazione, perché modulate, via via, secondo le variabili esigenze dei diretti interessati. Maisie vede come, intorno a lei, ruoti una giostra che non è stata pensata per il suo divertimento. A lei non resta allora che cercare un punto fermo a cui aggrapparsi. Questo è ciò che deve fare. E ciò che sa è che quella è l’unica via di uscita. 

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