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Tutti pazzi per Rose

Regia di Régis Roinsard vedi scheda film

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La recensione su Tutti pazzi per Rose

di M Valdemar
8 stelle

Piacevole come una carezzevole brezza in una calda notte d’estate, Tutti pazzi per Rose deve la sua ventata di freschezza a una brillante sortita nei luoghi mai così rimpianti come quelli di un passato idealizzato degli anni cinquanta.
Pellicola irresistibile e moderna perché sfrutta le correnti briose e pop del coloratissimo mondo/immaginario di un tempo remoto assai fascinoso che ispira sempre sentimenti ed emozioni dalla candida “educata” portata. Anche quando sappiamo benissimo che è tutta un’illusione, un (finto) ingenuo ancorarsi ad una realtà (creduta) migliore, delle cui vibrazioni positive, così smaccatamente solari, ci piace farci travolgere.
Ma certamente, il confine tra l’omaggio sincero e la insulsa operazione nostalgia è sottile, sottilissimo; fortunatamente Populaire (titolo originale, naturalmente più significativo rispetto all’ennesima furba distorcente “traduzione” italiana) evita i pericoli, aggira le folate d’aria stantia, e cavalca felice l’onda di una storia che persino il più cinico amerebbe vedere/vivere.
Se il piglio è, per forza di cose, lieve e “carino”, c’è senz’altro da rilevare che non si scade mai nel vuoto di una rappresentazione inconsistente e banale (la mera riproposizione di schemi e meccanismi già stranoti e usurati) così come non si riduce il film ad una dimensione da barzelletta con personaggi-macchiette e situazioni oltre la soglia del ridicolo (e ben addentro l’irrinunciabile vortice della scurrilità).
Anzi, in quello che è un impianto solido, classicamente legato ad un genuino romanticismo che stride coi tempi e le mode/manie attuali a rapidissimo (ab)uso e consumo, gli autori riescono ad inserire in maniera diligente elementi meno leggeri di natura socioculturale quali l’emancipazione delle donne in un’epoca fortemente connotata dalla presenza dominante del maschio, in particolar modo in ambito lavorativo e nei costumi.
Elemento, comunque, che non appesantisce né fa deragliare in direzioni assurde la grazia di quella che è, ad ogni effetto, il bel ritratto di una deliziosa storia d’amore. Alla quale l’inusuale componente ludico-“sportiva” (le ultracompetitive gare di velocità dattilografica in cui la Rose del titolo eccelle) più che da sfondo o da semplice sottotraccia funge da grimaldello che scardina la stasi psicologica ed emotiva dell’uomo sia la  crescita/formazione della stessa donna.
Infatti risulta più che discreta la psicologia dei personaggi, sia per la (assoluta) protagonista femminile, la suddetta Rose, sia, e con maggior stratificazione, quella del suo capo/“istruttore”/innamorato, il complesso Louis, sotto la cui apparente scorza frivola e dura si celano le conseguenze della grande guerra e di un amore non corrisposto (Marie, moglie del suo migliore amico).
Il resto lo fa la (divertita) messa in scena: i toni sono dolci ma non stucchevoli, le atmosfere rivelano una capacità di cogliere lo spirito ed il profumo “buono” delle cose vecchie, il respiro delicato soffia ben al di là di quello che è un intreccio (con annesso lieto fine) prevedibile, riuscendo a non far desiderare allo spettatore altro che esattamente ciò che sullo schermo scorre.
Il tutto ad un ritmo effervescente sospinto e sottolineato, “musicato”, dal tocco vintage e dinamico che il ticchettio delle dita (magari con le unghie dipinte con colori diversi: fantastico) producono sulla macchina da scrivere, oggetto che pare rivenire direttamente un altro mondo.
Bravi gli attori: Bérénice Bejo (Marie), da comprimaria di lusso, riesce a tratteggiare un personaggio credibile (oltre ad essere stupendamente ritratta in abiti ed acconciature dell’epoca); Romain Duris (Louis) ha una fissità nello sguardo che rischia di stufare ma qui è una caratteristica che ben si confà alla parte; molto espressiva invece la protagonista Deborah François. La sua Rose Pamphyle è adorabile in ogni momento e sfumatura, moderno corrispettivo delle memorabili dive degli irripetibili fifties.

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