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Gli equilibristi

Regia di Ivano De Matteo vedi scheda film

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La recensione su Gli equilibristi

di fixer
8 stelle

  

Un film amaro e duro che ti prende come un pugno allo stomaco. E’ uno dei pochi film onesti nella non vasta cinematografia italiana che raccontino la difficoltà dell’esistenza quotidiana.

Il pregio principale è quello di non cadere nelle trappole che storie come queste spesso frappongono. La trappola della leggerezza, ad esempio. Noi italiani siamo maestri nel combinare, in tanti film di impegno sociale, dramma e commedia, e specialisti nel gettare alle ortiche occasioni che avrebbero potuto essere importanti per il nostro cinema, utilizzando strumenti ben noti come  l’irruzione di localismi facili, concessioni dialettali scontate, gags varie ecc.

Il timore di realizzare film “troppo seri” spaventava e spaventa tanti produttori nostrani, preoccupati del possibile flop al botteghino.

Un altro trappolone poteva essere il facile sentimentalismo e il conseguente lieto fine consolatorio. In una storia così, era facile indulgere a scene lacrimevoli, a facili discese moralistiche, a dubbie riconciliazioni teatralmente “forti” ed italianamente melodrammatiche.

Ci troviamo di fronte, invece, ad un film maturo che traccia una storia realistica, credibile, senza orpelli retorici e senza concessioni allo spettacolo.

E’ una storia comune, ordinaria, una delle centinaia di storie che avvengono ormai a cadenza quotidiana. Un matrimonio che si sfascia (non importano i motivi), un marito che lascia la casa, moglie e figli e se ne va a vivere da solo.

Vivere da soli, dopo un divorzio o una separazione, in una società come la nostra, è molto spesso una discesa all’inferno.

“Il divorzio è cosa da ricchi” dice un personaggio al protagonista. Ma il nucleo del film non è la denuncia dei problemi sociali e delle difficoltà che i divorziati incontrano. Il film narra soprattutto la parabola esistenziale di un uomo qualunque, noi stessi, quindi, quando scatta la separazione(e il divorzio).

Il protagonista, mirabilmente interpretato da Valerio Mastandrea (uno dei nostri migliori attori), è un uomo come tanti, un lavoro sicuro (al Comune di Roma), una casa, due figli che ama e da cui è amato e una moglie.

Un’avventuretta con una collega manda tutto all’aria. La moglie Elena(un’algida Barbora Bobulova) non riesce più a vivere sotto lo stesso tetto con lui. Non ci sono scenate, c’è solo un confronto schietto da cui emerge l’impossibilità di proseguire il rapporto coniugale.

Giulio intraprende così una graduale discesa verso la povertà, l’umiliazione, la vergogna, la frustrazione. L’inferno, insomma.

Lo fa con dignità, lottando con tutte le sue forze per assicurare alla moglie e ai figli il sostentamento che loro spetta per legge. Ma la sua vita si fa sempre più difficile; in poco tempo passa dall’alberghetto alla pensione e infine alla sua automobile come dimora. In lui cresce sempre di più la frustrazione per l’impossibilità di vivere una vita degna di questo nome e poco a poco la sfiducia, il pessimismo e la depressione lo spingono sempre più verso la solitudine fino al gesto estremo del tentativo di suicidio (evidente l’influenza di UMBERTO D).

La telefonata finale sembra ridargli un alito di vita, ma non è dato sapere se ci sarà un seguito più sereno.

Interessante è la progressiva afasia del protagonista: più sprofonda nel tunnel della povertà e della vergogna, più aumenta il suo silenzio. Il linguaggio è essenzialmente comunicazione. Questa serve a relazionarsi con il prossimo. Se però la realtà esterna diventa ostile, non ha più senso comunicare con essa. C’è chi reagisce alle avversità moltiplicando la quantità verbale, supplicando. mentendo, piagnucolando, imprecando, a volte finendo nella logorrea. C’è chi invece, come Giulio, con una dignità che gli fa onore, sceglie di non comunicare più, di tenere esclusivamente per sé la propria umiliazione, la propria vergogna, convinto ormai che sia tutto inutile. Il passo successivo è spesso il suicidio. Il suo tentativo è quasi goffo, visto che c’è ancora, in fondo, voglia di vita. I veri suicidi, si sa, non sbagliano: accadono e basta.

La discesa all’inferno è un’ottima occasione per un affresco della sotto-realtà che convive con quella che si mostra. Qui emerge tutta la fragilità del nostro esistere, la precarietà del nostro apparente benessere, troppo spesso non dipendente da noi ma da variabili esterne impazzite, capaci di precipitarci, come in un brutto sogno, in quell’inferno che credevamo non appartenerci, sgradevole, ma estremamente reale, opprimente e incombente.

Il film non è esente da qualche difetto, come il frettoloso sbocco della crisi coniugale, lo scialbo ruolo della moglie, la poca incisività o, se vogliamo, cattiveria nel descrivere lo squallore e la crudeltà dei rapporti umani quando ci si trova in cattive acque. Questo toglie quel pizzico di sgradevolezza ulteriore che avrebbe reso il film ancora più credibile, ma gli evita di cadere nella possibile trappola del grottesco e cioè caricare troppo i personaggi della corte dei miracoli che gravitano nel sotto-mondo quotidiano.

Un film onesto e valido.

 

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