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La parola ai giurati

Regia di Sidney Lumet vedi scheda film

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La recensione su La parola ai giurati

di Kurtisonic
8 stelle

Meglio un colpevole vivo che un innocente morto?

E. G. Marshall, Lee J. Cobb, Jack Warden, Henry Fonda

La parola ai giurati (1957): E. G. Marshall, Lee J. Cobb, Jack Warden, Henry Fonda

 Se uniamo per gioco, film d’esordio e ultimo lavoro di Sidney Lumet, troveremmo sorprendentemente diversi punti in comune, frutto di una visione cinematografica coerente forse, o magari di una casuale convergenza su di uno sguardo a cui non resta alla fine di un lungo cammino che chiudersi su se stesso. Il senso compiuto del messaggio contenuto in La parola ai giurati (1957) e quello di Onora il padre e la madre (2007) sembrano specchiarsi l’uno nell’altro pur contenendo conclusioni diametralmente opposte. Cinema morale il primo, ugualmente forte e focalizzato ma cinicamente amorale il secondo. Elemento fondamentali del cinema di Lumet, regista dall’impostazione classica è quella di prendere spunto da storie forti ma che diventano materia plasmabile grazie alla caratterizzazione degli attori che ha utilizzato in carriera, alla gestione che la regia ha saputo imporre. La parola ai giurati, il suo fulminante esordio, ne è la prova fondata, girato in un unico ambiente, una stanza all’interno di un tribunale, dove dodici attori interpretano una variegata giuria popolare chiusa in ritiro per emettere una sentenza che per legge deve essere unanime, riguardante un caso di omicidio. L’accusato, un ispanoamericano, è gravato da prove che sembrano schiaccianti, ma l’emissione del verdetto riserverà più di una sorpresa. I dodici uomini, tutti di razza bianca ovviamente , si divideranno  nell’ora e mezza della durata del film il ruolo e lo spazio raffigurando con i loro interventi  un’intera classe sociale, quella middle class degli anni 50 in piena ascesa verso il mito del benessere materiale e del potere del” self made man” con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti. Il film si apre e si chiude quasi sulla stessa inquadratura ma con un movimento di macchina opposto. All’inizio c’è l’immagine canonica della scalinata dell’ingresso del palazzo di giustizia, prefigurando la salita verso l’alto, verso una dimensione sovrumana  dove l’uomo diventa giudice della vita di un altro in nome di una legge. La chiusura invece significativamente riprende i giurati che in fretta scendono quegli stessi scalini, più che investiti della loro alta funzione, spogliati dalla vicenda e dalle proprie convinzioni aprioristiche. Non saremo di fronte alle schermaglie dialettiche e sensazionalistiche del classico legal movie, anche se la struttura del film si basa sui  dialoghi e i confronti serrati fra i protagonisti.  La macchina da presa cattura i volti, li ridefinisce attraverso le parole, rivelandone caratteri e meccanismi di autodifesa della propria condizione a scapito di chi è diverso, o percepito come inferiore.  Se poi un atteggiamento superficiale di comodo viene condiviso dalla maggioranza , costasse anche la vita di un innocente che male ci sarebbe.. sembra pensare più di uno di loro. Sarà l’insinuazione del cosiddetto ragionevole dubbio che anima uno dei giurati, a rimettere il caso in discussione aprendo la strada a diverse perplessità. Il dissenso del giurato contrario a dichiarare sbrigativamente la colpevolezza dell’imputato si baserà  non sulla convinzione della sua innocenza ma sul dubbio, sull’analisi attenta dei fatti, sul confronto con le altrui certezze che contengono anche delle osservazioni  pertinenti.  Le conclusioni alle quali gli uomini giungeranno, saranno proprio quelle che permettono loro di restare uomini, di calarsi nei panni dell’altro, prima con diffidenza, poi con la ricerca della comprensione. Valori che superano le leggi, le convinzioni, le differenze, quello sarà ciò che principalmente resterà a loro, mentre lo spettatore inevitabilmente già dalle prime battute (questo invece  in linea perfetta con il genere) si trova fortemente compromesso nel giudicare la vicenda in qualità di ulteriore giurato. Un unico passaggio del racconto appare un po’ troppo costruito per contribuire a fare del film un vero e proprio manifesto sul diritto e sulla libertà altrui, tuttavia non inficerà la forza del significato da cogliere. La verità in fondo non sarà dimostrata, se non che la verità stessa è influenzata dall’esperienza personale dell’individuo, dal suo vissuto, dalla sua storia, e non sarà un caso che il giurato di cui si saprà di meno è quello più dubbioso come se il regista pur indicando la strada verso la ricerca della ragione lasciasse sempre aperta la porta ad una nuova revisione, ad una diversa verifica dei fatti che però deve poi tramutarsi in prova inconfutabile.  Prove d’attore superlative e indimenticabili, ma la parte che resta dentro a chi  guarda il film anche dopo tanto tempo, è la riflessione che il film suscita,   diventando nel tempo e si spera nel quotidiano una piccola grande lezione a cui non ci si dovrebbe mai sottrarre.

 

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