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Stoker

Regia di Chan-wook Park vedi scheda film

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La recensione su Stoker

di Kurtisonic
6 stelle

Continua il progressivo allontanamento dalla straordinaria trilogia della vendetta da parte dell’erudito regista Park Chan wook. Il suo cinema che con quei film analizzava e indagava a fondo sulle relazioni sociali, sui rapporti di potere fra psicologismi sull’orlo del baratro, inoculando dosi appropriate di violenza e sentimentalismo che si scontrano con la critica sociale, sembra in procinto di svoltare verso una colonizzazione linguistica che ne riduce e comprime l’identità. Stoker, prima esperienza americana del regista, manifesta senza dubbio le qualità creative, il senso estetico, il gusto per una composizione dell’immagine che sfocia in buoni  momenti enfatici e coinvolgenti, ma che tuttavia appare svuotata di quella sostanza umana che connotava quell’insieme magico di furore e incanto che appassiona e che riesce a perturbare l’animo dello spettatore e dei suoi personaggi. Il talentuoso regista passa dalla circolarità della narrazione e dei contenuti  che con il progredire della vicenda si amplificano, offrendo continue e interessanti riletture che impongono allo spettatore un dinamismo speculare a quei ritmi serrati, alla più classica triangolazione con l’intreccio piuttosto leggibile fra i personaggi.  Da un buono spunto di partenza che sembra seguire tracce più astratte e metafisiche, la vicenda assume i contorni del noir psicodrammatico in ambito familiare, venato di particolari semi macabri che tuttavia vengono ridotti in drammaticità e in elementi di tensione secondari dalla prevedibilità dei personaggi, dalla loro rappresentazione patinata (nel caso della madre e dello zio della protagonista, possiamo a ragione definirle da facce di plastica). Dunque se cerchiamo tracce evidenti dell’autore nulla di significativo perviene, se ci si limita al contenuto invece si possono trovare parecchie cose in comune con i codici linguistici e comunicativi dell’occidente, simbologie scontate e già viste, punti di vista acritici e palesemente deboli che si rivelano forti nella loro inconcludenza, un sottile e ambiguo fascino del male che senza una forte giustificazione si riduce a sterile clichè rivoluzionario. Non basta la buona prova di Mia Wasikowska  nei panni dell’inquieta India, nel mescolarne l’intima matrice crudele con il malessere delle trasformazioni da ragazza a donna, e non aiuta proprio per niente la deliziosa scena “tafazziana” del cambio delle scarpe della ragazza, da quelle basse tipo da collegiale o da bowling a quelle “tacco 12”regalate dal bellimbusto zio Charlie che dovrebbe ispirare disperazione affettiva invece che una banale eruzione ormonale con tanto di occhioni lucicanti. Era una traccia interessante quella che si trasformava da un’apparente attrazione sessuale fra Charlie e Mia in una delirante dipendenza affettiva  da parte dell’uomo, ma la vicenda indugia troppo a lungo prima, per potersi trasformare credibilmente poi sfruttando i tempi giusti. La madre, impersonata da una Kidman imbarazzante, esordisce, in privato, con l’urlo strozzato del nome del marito defunto ma che non amava più,  poco dopo la vediamo addolorata alla cerimonia funebre, e pubblicamente se ne comprende l’ipocrisia, infine cerca di recuperare confusamente un rapporto con Mia  (affezionatissima al padre morto) smaniosa di gettarsi fra le braccia dell’irresistibile Charlie, ricomponendo il più banale dei triangoli. Park Chan wook  ci è arrivato tardi, altri autori hanno già sterminato la morale della famiglia occidentale e scoperchiato le debolezze della nostra società corrotta, se ci prova anche lui ammorbidendo e anestetizzando culturalmente il suo cinema, il risultato non è eclatante. Aritmia dell’immagine e stucchevolezza dei protagonisti fanno il resto, tutto troppo pulito, senza odore, il sangue stesso non mette i brividi o fa sussultare, Park controlla come sa la scena, l’ambientazione è stilizzata come da  catalogo ma stavolta la perfezione estetica non copre il vuoto sostanziale, anzi lo sottolinea implacabilmente. 

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