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Stoker

Regia di Chan-wook Park vedi scheda film

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La recensione su Stoker

di ROTOTOM
6 stelle

L’eleganza del male.
Qui la banalità non c’entra nulla. Il male è come una malattia genetica che si tramanda di generazione in generazione.  Un virus o più calzante ancora una maledizione che affligge la famiglia alto borghese Stoker . Un cognome che è una dichiarazione di intenti ripescando il cognome del creatore di Dracula, una delle storie gotiche più importanti di sempre per veicolare già a partire dal  suono e la pronuncia della parola, la tensione di una malsanità intima e non sopprimibile.



Sospeso tra il dramma famigliare, il noir sofisticato e l’horror , Stoker è il risultato dell’incontro della cultura del cinema americano e la poetica della violenza melò del più grande regista coreano contemporaneo: Park Chan-Wook autore già della Trilogia della Vendetta di cui Old Boy , Gran Prix a Cannes 2004 è l’indiscusso capolavoro (ora nelle mani di Spike Lee per il consueto , inutile remake), oltre a Thirst ,  Prix du Jury  a Cannes 2009 mai distribuito in Italia e I’m a Cyborg, but That’s Ok (2006), favola lieve e surreale sulla diversità ambientata in un manicomio.



Park Chan-Wook è solo l’ennesimo regista coreano convocato per ridare linfa ad un genere cinematografico , il  fantastico americano, ancora anestetizzato dalla Grande Paura dell’11 settembre 2001 e sorpassato per coraggio , stile e linguaggio dalle tv via cavo, più agili e pronte alla sperimentazione di quanto non sia la poderosa e fragile industria americana dei sogni (o incubi).  Già assoldati infatti Kim Ji -Woon che ha diretto un solido action per il ritorno sullo schermo di Arnold Schwarzenegger, The Last Stand (2012), e il grande, qui semisconosciuto, Bong Joon-ho autore di capolavori come The host (2006) e Madeo (2009) e ora alle prese con  Snowpiercer, un film di fantascienza.



L’ibrido da brivido di cui Park chan Wook è realizzatore è una glaciale discesa nella follia, una storia che prende come riferimento l’inevitabilità del giallo hitchcockiano e scandita da una messa in scena elegante e dilatata nei tempi narrativi che mostra la famiglia altoborghese Stoker alle prese con l’inaspettato arrivo a casa dello zio Charlie (Matthew Goode) dopo tanti anni trascorsi in giro per il mondo , poco dopo la tragica dipartita del capofamiglia  in un incidente stradale. A casa Stoker lo accolgono Evie, (Nicole Kidman) vedova facilmente consolabile, fragile e infantile e India (Mia Wasikowska) la figlia problematica, taciturna e ostile.



Quello che si instaura tra i tre protagonisti è un lento ballo di morte, suadente ed raffinato, dove la seduzione del male trova la strada nel labirinto psicologico dei protagonisti sublimando goccia a goccia in follia strisciante. Tra immagini frammentate in un caleidoscopio di false percezioni e riferimenti espliciti ad una sessualità tanto bramata quanto costantemente negata che mantiene la tensione sempre su una nota alta  di isteria repressa, i misteri della famiglia emergono a poco a poco, tra segreti custoditi in cassetti chiusi, strani regali impacchettati con nastri gialli e un passato tragico da rielaborare. Il vizio di famiglia, l’omicidio, risiede latente nel cuore della famiglia  e attende un evento scatenante che lo liberi definitivamente.



Si può ascrivere nel novero dei bei film , Stoker, perché Park Chan-Wook è un regista sublime, ma la sua poetica, sempre ammantata di una vena romantica, spesso violenta quando non surreale, all’incontro con le esigenze produttive americane sembra disinnescata di ogni potenzialità  rimanendo latente , inespressa.  
Colpa forse dell’opera di  Wentworth Miller, autore del soggetto e di una sceneggiatura portatrice di una banale morbosità da salotto, inerte e  poco adatta alle feroci ossessioni claustrofobiche messe in scena nel passato dal regista coreano.
La natura  del lavoro su commissione accettato da Park è palese ma poco personale, il soggetto non rientrando  pienamente nelle sue corde provoca la  diluizione del suo  stile nella convenzione del racconto  tradizionale hollywoodiano.

L’aspetto positivo viene dal comparto tecnico che dona al film un’estetica molto curata,  a partire dalla fotografia calda e elegante di Chung-hoon Chung e la cura maniacale dei particolari, dagli abiti di scena alla scenografia di Thérèse DePrez che rende la casa padronale un luogo carico di storia e insieme di mistero.



Stoker è un gotico moderno  che gioca con la natura ambigua dei protagonisti insinuando il sospetto che nelle loro vene possa scorrere qualcosa d’altro, oltre al sangue.  Il lirismo di Park risorge a tratti, come nei duetti al pianoforte tra lo zio Charlie  dallo sguardo fisso (forse un po’ troppo)  su un punto che solo lui sembra vedere oltre il reale e la nipote India , complessata e bloccata dall’assenza emotiva della madre Evie.  Impone ai suoi attori una recitazione liquida, come in balia di un sogno dal quale non è possibile svegliarsi.
Simboli e feticci ( le scarpe , la chiave , la cintura paterna) , sospensioni narrative, silenzi fanno parte della cifra stilistica di Park Chan-Wook che cerca di disegnare sui volti dei suoi attori occidentali inquietudini che se su un viso orientale diventano cariche di  senso, in questo caso a volte si perdono in semplici fissità. Il cinema coreano d’autore si muove su altri piani narrativi, più ipotetici e sospesi , con ellissi narrative secche e stringate .
Atmosfera che non riesce a rendere partecipe questi attori, più abituati ad un didascalismo esplicativo , tipico della produzione americana. Alcune forzature sono evidenti e imposte per donare una vena di drammaticità e sensualità esibita forse inutili, come la masturbazione di India sotto la doccia che significa poco e rimane ad aleggiare nell’aria senza un perché. Sembra che le due scuole non si integrino, ma che siano sovrapposte l’una all’altra, e che si anestetizzino a vicenda in un compromesso che non rende completa giustizia alla storia.



Il colpo di scena finale che in realtà colpo di scena non è , visto che il regista coreano porta per mano con delicatezza alla sua esibizione, chiude con ironia dark il percorso di formazione della giovane India, sedotta dal male di famiglia, ratificando qualcosa che era nell’aria e sembrava fosse solo questione di tempo prima del suo compiersi. E chiude un film con la netta sensazione che avrebbe potuto essere un ‘opera ancora più importante se fosse stata realizzata in piena autonomia.
Non un’occasione mancata perché il film tutto sommato è buono ma è il  buon film che si rivela essere il peggiore di Park Chan-Wook. E  questo fa capire , se ce ne fosse bisogno, quanto sia alta la statura artistica di questo immenso regista. 

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