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Stoker

Regia di Chan-wook Park vedi scheda film

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La recensione su Stoker

di spopola
8 stelle

Già presentato con successo in anteprima mondiale al Sundance Festival, finalmente è approdato anche sui nostri schermi questo Stoker che dopo moltissime vicissitudini e passaggi di mano, Hollywood è riuscito a produrre, ricorrendo alla fine alla “sicura” mano di Park Chan-wook, regista di culto della Corea del Sud e qui alla sua prima prova in lingua inglese.

Devo dire che pur condizionato (e a mio avviso accettando persino qualche non tanto piccolo compromesso poiché il risultato complessivo non è omogeneo come al solito e il regista non ne esce completamente indenne), il suo genio creativo riesce  ad emerge comunque in più di una sequenza, anche se è purtroppo evidente che questa sua recente “fatica” realizzata in trasferta, si muove sul pericoloso terreno del “bilanciamento” fra produzione commerciale e autorialità. Potrebbe addirittura far storcere la bocca a qualche “purista” che lo vorrebbe ancorato soprattutto alla sua straordinaria trilogia della vendetta (Mr. Vendetta, - Symphaty for  Mr. Vengeance, LadyVendetta e Oldboy del quale si annuncia un remakein salsa americana che mi lascia abbastanza perplesso perchè quando le opere sono capolavori perfettamente compiuti come in questo caso, a me sembra pericoloso e inutile farne un a riedizione in tempi tanto ravvicinati e che “se proprio si doveva fare”, forse sarebbe stato molto meglio lasciarla allora nelle “disponibilità” del suo creatore anziché affidarla in gestione alla ormai stanca mano di Spike Lee – e spero che non me ne vogliano gli estimatori del regista che ha realizzato in passato anche opere grandiose, ma che se ci si rapporta alle sue ultime produzioni, mi sembra che sia davvero in una caduta libera che rischia di risultare irreversibile e che di conseguenza mi sembra non possa promettere davvero niente di buono) dimenticando però che se si è seguito da vicino anche la precedente produzione di Park Chan-wook  non possiamo prescindere dal riconoscere che non è stato solo quello il cinema da lui “composto” in patria che si è sviluppato anche in altre direzioni con altrettanto vigore  e compattezza di stile, e che di conseguenza aveva indubitabilmente la competenza per realizzare da par suo – se avesse avuto totale libertà di scelta come invece credo di poter avvertire chiaramente non ha avuto - anche un soggetto intrigante come questo, rimasto troppo a lungo nei cassetti, e riproposto subendo qualche “contaminazione” di aggiornamento non sempre produttiva .

Hollywood – checchè se ne dica e pensi, rimane sempre l’agognato approdo che sancisce la consacrazione “mondiale” del talento e in pochi hanno saputo resistere alla lusinghiera tentazione di accettare di confrontarsi con le più faraoniche possibilità (anche economiche) offerte degli studios, dimenticando però il pegno da pagare che non sempre consente di mantenere integra la propria arte e spesso tarpa le ali alla creatività, perché alla fine il “sistema” strettamente legato alla produzione commerciale delle pellicole, finisce per travolgere e immiserire pesantemente l’ispirazione fino ad asservirla al volere del “capitale”: molti ci sono per fortuna riusciti (soprattutto in passato); altri hanno dovuto soccombere miseramente, e soprattutto in queste ultime stagioni, i tempi sono veramente brutti per tutti e poco promettenti.

Adesso è arrivato il momento della Corea del Sud e dei suoi nomi di punta (e speriamo che non debbano anche lor pagare un prezzo troppo alto): abbiamo già potuto vedere come se l’è cavata Kim Jee-woon (The last  Stand – L’ultima sfida) che a mio avviso (ma è un punto di vista strettamente personale) si è già ampiamente “calato le brache” e pur avendo realizzato un tutt’altro che indegno film d’azione, sa soltanto echeggiare -  e in modo molto “americano” - i temi portanti della sua poetica:  ha  indubbiamente“eseguito” con molta diligenza il compito assegnatogli costruendo un’opera indubbiamente compatta ed avvincente, ma molto lontana  (anche come senso e spirito) dai suoi capolavori.

Se come ho già accennato anche Park Chan-wook, è riuscito solo in parte a mantenersi integro, rimane adesso solo da vedere come riuscirà a coniugare “arte” e mercato Bong Joon-ho, il terzo “astro” nascente che più che una promessa è ormai da tempo una luminosa conferma, chiamato sempre in America  a dirigere il fantascientifico Snowpiercer  (che proprio in questo genere ha dato più che ottimi risultati con lo straordinario e insolito The Host).

 

Dopo questa necessaria premessa, torniamo comunque a Stoker,  per precisare subito che all’autore di Dracula  (il grande Bram Stoker) si fa solo riferimento nel titolo e non ci sono altre congiunzioni o “parentele” (se non forse il tema del “male” e della sua condanna che è centrale sia nei libri dello scrittore che in questa prova hollywoodiana dell’ingegnoso regista coreano, e quello della solitudine profonda, quasi incolmabile,  matrice comune che rende abbastanza similare sia pure in differente forma, la figura del “Conte dei Carpazi” costretto a vivere la sua eternità di sangue a quella dell’enigmatico Zio Charlie).

Niente vampiri insomma (il sangue che corre ha tutt’altra finalità), poichè qui siamo semmai di fronte  a un thriller psicologico-sessuale che ha certamente al suo interno anche elementi horror, ma che presenta comunque – se proprio vogliamo trovare delle affinità -  più diretti (e avvertibili) contatti col cinema di Alfred Hitchcock (autore “cult” del regista), non solo per alcune convergenze del soggetto (l’attrazione fra zio e nipote come ne L’ombra del dubbio) ma anche per certe scelte relative alla forma e alle soluzioni della messa in scena  (ce lo ricorda molto bene Roberto Manassero su Filmtv cartaceo quando evidenzia che ci troviamo dentro “il transfert omicida di L’altro uomo, gli strangolamenti di Frenzy, l’opposizione tra bionda e bruna di Rebecca – la prima moglie -ma io ci tirerei dentro anche Marnie - la doccia e il poliziotto con occhiali a specchio di Psyco) che trasforma il tutto in un morbosissimo dramma familiare intriso di delitti, incesti e tradimenti (quasi una specie di “favola gotica”) che pone come fulcro nodale della narrazione, la maturazione ( la pellicola è infatti a suo modo anche un percorso di formazione, non certo edificante ma solo per i risultati pratici a cui approda, dovuti al malessere ed alla “corruttibile” morale che alla fine scoperchia le colpe del passato) di una giovane dark lady in pectore, amletica e vendicativa (ritorna dunque anche qui sia pure in forma più “sfumata” rispetto alla radicalità delle sue precedenti opere, anche il tema della vendetta).

Storia di tre differenti psicologie e di altrettanto differenziate pulsioni sessuali anche degenerate, Stoker è prima di tutto un film costruito con raffinata eleganza, che conferma in toto (almeno nella forma) le inclinazioni un po’ “barocche” di un regista che questa volta lavora più sulle “suggestioni” complessive della rappresentazione che sulla “crudeltà delle immagini, e che richiama prepotentemente proprio in virtù di tale scelta, quelle altrettanto coinvolgenti  indirettamente mutuate dal “dichiarato” modello di riferimento mai però “citato” espressamente con riferimenti “certi” e ineludibili.

La cura dei dettagli è come sempre estrema ed accurata (e soprattutto efficacissima), così da rappresentare l’elemento distintivo dell’opera, a partire dalle scelte stilistiche di alcune scene di straordinaria potenza evocativa (una per tutte, quella in cui i capelli di Evelyn, pettinati con meticolosa cura da sua figlia India, si trasformano negli steli mossi da vento delle piante che crescono  in un campo di granturco, per non parlare poi degli schizzi di sangue che si riverberano  sull’erba e sulle foglie, o del ragno sorpreso a camminare sulla gamba della giovane ragazza). Da segnalare in positivo anche l’eccellente utilizzo dei primi piani che – come ci ricorda giustamente Giovanni Ottone - configurano stranianti effetti pittorici molto efficaci anche sotto il profilo empatico.

 

La vicenda è ambientata in una magnifica villa di una cittadina del Sud degli Stati Uniti d’America. Prende il via  proprio con un funerale, quello di Richard Stoker (interpretato da Dermot Mulroney , ricco possidente deceduto qualche giorno prima a seguito di un misterioso incidente d’auto.

A seguire il feretro e la tumulazione, Evelyn, la sua sofisticata e algida vedova (una di nuovo “interessante” e “rigenerata” - anche se qui, pur brava come al solito, non è la migliore in campo - Nicole Kidman che fortunatamente ha nel frattempo smaltito una buona dose di botulino ed è ritornata ad essere esteticamente “meno contraffatta”) che non sembra particolarmente turbata dal luttuoso evento, e la pallida figlia diciottenne della coppia (la corvina e intensamente efficace India di Mia Wasikowska) che al contrario della madre, risulta invece molto provata dal decesso ed è chiusa quasi ermeticamente dentro al suo dolore.

L’improvvisa comparsa dello “zio Charlie” (un inquietante, eccellente Matthew Goode che qui credo dia la prova più consistente e pregnante della sua carriera), il fratello quarantenne del morituro che era rimasto lontano dalla villa per moltissimi anni e quindi ormai del tutto estraneo alla famiglia e alle sue dinamiche.

E’ soprattutto il suo arrivo che finisce per destabilizzare gli equilibri mettendo in evidenza i dissidi, che diventano più macroscopici quando, portate a termine le procedure ufficiali delle esequie, invece di ripartire, decide a sorpresa di stabilirsi a sua volta dentro la grande casa del fratello.

L’uomo – un dandy  “ambiguamente” affascinante e sempre stranamente calmo – diventa così il fulcro delle attenzioni nella casa con il suo narrare dei sui prolungati viaggi intorno al mondo con una “affabulazione” che conquista soprattutto la parte femminile della villa: così, una volta insediatosi nella magione, mette subito a frutto la fascinazione discreta della sua presenza facendo inizialmente balenare i suoi interessi primari che prendono l’abbrivio con un corteggiamento discreto ma insistente, di sua cognata Evelyn, ma senza tralasciare però subdolamente, specifiche e “specialissime” attenzioni verso la più giovane India.

Nasce così un triangolo pieno di tensioni e di “sospetti”, prima per la gelosia di Evelyn nei confronti della figlia, e poi per la scoperta da parte di quest’ultima, di alcuni sconvolgenti segreti di famiglia che finiranno per rendere il tutto decisamente molto morboso e sfuggente, fino a  proiettare le azioni ed i rapporti in una dimensione sempre più soffocante  e oscura, quasi claustrofobica, dove anche il sangue e i delitti  avranno la loro parte importante in un percorso in cui, dopo le rivelazioni e le scoperte, nipote e zio sembrano mostrare sempre maggiori affinità e prerogative altrettanto attinenti (decisamente “similari”, più che complementari) che rendono inquietante il panorama  e spingono le cose verso la loro drammatica conclusione seguendo il percorso tracciato dalla sceneggiatura originale (opera di Wentworth Miller) che è stata molto decantata, ma che ha avuto poi alcuni successivi e significativi innesti secondari che contribuiscono – insieme al lavoro del regista - a renderla molto più disturbante di quanto probabilmente non risultasse invece nella sua stesura primaria, grazie all’apporto creativo di Erin Cressida Wilson  coinvolta nella fase definitiva della messa a punto dello script e già autrice di sceneggiature dense di implicazioni  tutt’altro che “conformi” (come quelle di Secretary, Chloe e soprattutto Fur. Un ritratto  immaginario  di Diane Arbus, pellicola da molti “sbeffeggiata” quando fu distribuita sui nostri schermi per la sua “eccentricità” decisamente spiazzante e molto estremizzata, ma che dovrebbe forse essere (ri)guardata oggi con un occhio più disteso, e soprattutto disponibile ad accettare “la sfida” e ad andare oltre l’apparenza di una “deformità” che lì è più “morale” che di facciata” e come tale, tutt’altro che fine a se stessa).

 

Nel suo insieme (anche se poi in  parte esemplarmente “rivalutata” con la messa in scena) è proprio la scrittura a risultare poco coinvolgente, drammaticamente  parlando, zeppa com’è di  scontati (e un po’ grossolani) risvolti psicologici di matrice freudiana (immagino accentuati dalla Wilson),  primo fra tutti il contrasto madre-figlia, le problematiche edipico-incestuose  e la figura dello zio che tende ad essere vissuta – nonostante le valenze erotiche della sua presenza -  come sostituto (o surrogato che dir si voglia) della figura paterna.

La concisione dei dialoghi sempre molto essenziali, contribuisce comunque a rendere molto agevole un percorso narrativo (che può certamente creare qualche subbuglio nell’anima dello spettatore per ciò che mette in campo)  che ha consentito comunque a Park Chan-wook di lavorare di fino soprattutto su “suoni” e “immagini”.

Chi ha in memoria però la personalissima e speciale “forza empatica” dei suoi precedenti lavori più genuini e meno “controllati” dai “limiti” imposti dalla produzione (in particolare gli stupefacenti melodrammi malinconici e crudeli della trilogia della vendetta già citata prima, dove la sperimentazione dello sguardo era spinta al limite estremo della sopportazione, con la ritualità delle torture, la visionarietà degli ambienti  e la violenza quasi pulp degli scontri che lasciavano trasparire un insopportabile dolore che solo la vendetta era capace di lenire), potrà adattarsi con più di una difficoltà a questa nuova forma maggiormente ovattata che lascia alle sue spalle proprio molti di questi elementi (o forse prova solo a declinarli in altra forma, il che risulta però molto meno convincente, a partire dall’inserimento di componenti marginali intrisi di humor nero, fino ad arrivare a una suspense a volte costruita a freddo e creata  quasi in modo artificiale, affidandosi più che alla costruzione “drammatica”, a espedienti sonori o a fulminanti sequenze di ripresa (bellissima e profondamente intrigante la fotografia di Chung-hoon Chung).

La messa in scena insomma questa volta risulta forse un po’ troppo controllata e un tantino “addomesticata”, poichè il talento molto visionario del regista si esprime solo a tratti come se fosse rimasto “prigioniero” di un rigido schema che non gli appartiene e dal quale non gli è stato consentito di uscire se non con piccole “efficacissime zampate” (alcune delle quali “evidenziate prima),  anche se per fortuna la sua dirompente genialità prende di nuovo forma nelle vigorose e sanguinose sequenze dell’epilogo, dove ritroviamo intatta la potenza  (anche rivoluzionaria dell’impatto) del regista e dove probabilmente è riuscito ad avere finalmente “mano libera” per potersi esprimere al meglio, eliminando così di colpo tutte le precedenti scorie che soprattutto a causa di un eccesso di stilizzazione, stavano seriamente rischiando, pur fra tanta opulenza figurativa, di rendere il tutto decisamente molto meno intrigante del suo abituale standard.

Alle ottime prove degli attori ho già accennato prima. Mi resta quindi solo da confermare che i migliori  in campo risultano essere una sempre più matura Mia Wasikowska assoluta “certezza del domani”,  e un altrettanto sorprendente Matthew Goode che aspettava da tempo l’occasione per poter dimostrare in toto il suo talento interpretativo. Non meno efficace, ma più conforme (anche per il ruolo)  la Kidman che si conferma comunque eccellente nel rappresentare la controversa psicologia del personaggio a lei affidato, che risolve al meglio con il contributo creativo della sua comprovata arte recitativa. Funzionale come al solito la resa di Dermot Mulroney (ma è il personaggio che deve interpretare ad avere minore spazio e ad offrire meno possibilità di “mostrarsi”).

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