Espandi menu
cerca
Un sapore di ruggine e ossa

Regia di Jacques Audiard vedi scheda film

Recensioni

L'autore

lorenzodg

lorenzodg

Iscritto dal 2 ottobre 2009 Vai al suo profilo
  • Seguaci 52
  • Post 2
  • Recensioni 272
  • Playlist 23
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Un sapore di ruggine e ossa

di lorenzodg
6 stelle

Un sapore di ruggine e ossa” (De rouille et d'os, 2012) è il sesto lungometraggio del regista parigino Jacques Audiard.
   Senza mascheramento alcuno e con idiomi solari di scarto alla macchina da presa, il film appare disponibile al rigetto e sacrario nel gioco distante di due corpi. I confini tra chi orienta l’inquadratura e i contrappunti di una messa in scena scarna ma non troppo e verbosamente ossequiosa, chiariscono (fin da subito) le finalità di un film asfittico e pieno di contraddizioni connaturate. E’ bello (e soprattutto di tendenza retrò) l’incipit iniziale con un padre e un bambino che l’autostop cercano e trovano un primo piano di una strada piena di tutta ma povera per chi avverte (anzi necessita) di un bisogno. Ecco un treno ed un primo e costante richiamo del bambino (cinque anni): “Ho fame,..ho fame”. Per due volte le prime parole del film. Mentre una porta girevole schiude un dramma senza contare il vivere reale di corpi dimezzati e persi.
   La pellicola di Jacques Audiard è in bilico costante tra vezzi scultorei (fasulli) e velleità di sogni (irreali) mentre il sesso carpisce e diventa metafora allegorica e chiuso ricolmo di gesti oramai persi: un affetto inesistente con un destino che sembrerebbe segnato. Ecco che l’arte del cinema inventa un miscuglio acerbo tra vite contrapposte e discorsi insaputi. Si può andare con una donna o l’altra senza battere ciglio e si può manifestare l’imbarazzo al contrario mentre un orgasmo c’è nel mentre custodisci riserve per amare (e poi salvare) un figlio che pensi di conoscere.

   Un film che non conquista e non tradisce certi modi di ripresa ma che si rivela (alla fin fine) un piccolo inganno. o per dirla in altro modo, meritorio di sentimenti nascosti e scontato nel finto dissacratorio. Un’alternarsi di corpi, di cuori scuciti, di luoghi ristretti, di visi scalfiti con riprese traslate e sguardi sbilenchi: come per dire che il bagno si osserva con non curanza e il silenzio addomestica i rumori fuori dagli incontri di Stephanie e Alain. E addormentarsi di fronte (al pubblico) per svergliars(c)i insieme lasciando a chi vede osservazioni interiori tenute in naftalina e alquanto remissive. Tutto saturo di scontri e di polsi sanguinanti.
   Un racconto (quasi) ricattatorio e per niente fruibile in posa e in disegno: una finzione gustante fino all’ultimo cercando qualcosa di invisibile e di poco ricercato. Infatti non si spiegherebbe lo stacco tra gli ambienti, la corsa al gioco e le costipate amorose in una successione un po’ meccanica, salivare e per nulla vitale. Un mortifero mondo anche alla musica in ‘forza’ con i movimenti della braccia di Stephanie che sulla sedia a rotelle, trova dei gesti (più volte ripetuti) poco palpabili per chi osserva e alquanto spenti per smuovere l’animo di commozione (poca) o almeno di salutare effervescenza. Il bucare lo schermo pare sia in stasi e di là da venire per la regia distaccata e senz’altro serafica. Da questo punto di vista il racconto appare poco emozionale e lasciato ai pugni e ai premi (vittoria) di Alain per più tratti che risultano ripetitivi e fiacchi come quelli dei rapporti sessuali tra i due: uno tira l’altro con accumulo di vuoti e dimezzamento continuo di qualsiasi brivido (già pochi in partenza) e con una ritualità che non par vero. E sì che l’uomo nudo frontale fa tendenza (vedi Fassbender e dintorni) ma a che pro andare avanti con schemi che già prevedi e con una parte finale distorcente e anche un po’ falsamente retorica.
   Stephanie (una brava Marion Cotillard) e Alain (un Mathias Schoenaerts pudicamente sorpreso) sono due opposti o due anime dello stesso corpo. Quello della donna a metà nelle gambe per colpa di spettacoli con orche che non perdonano e quello di Alain a metà nei modi e senza aliti. Un afflato improponibile e un aiuto di mani: il cuore ricompone ma lo spettatore non si fa partecipe in un susseguirsi di puntate sulla vita irrisa senza saperlo e riavuta senza chiederlo. Ma non siamo dalle parti di uno stile proprio e asciutto. Il film inciampa e nella parte finale a stento regge il tutto. Il figlio Sam (un Armand Verdure che rimane) di Alain portato come un oggetto (indispensabile) rimane in bilico tra il padre lontano (dai desideri) e la zia Anna (Corinne Masiero) che se ne prende cura. I rapporti non sono semplici come alcune tragiche conseguenze (rimanere senza il lavoro) portano Ali a scappare. Il figlio ritrova il padre, un soccorso disperato, un letto d’ospedale e una telefonata (inaspettata) di Stephanie ad Ali. Un finale a circolo con una porta girevole.

   Si deve dire che gli accadimenti (alla fine) diventano ad accumulo e alquanto poco reali in un cerchio conclusivo delicato certamente ma privo di vero mordente. E la luce naturale (come per quella degli interni) appare troppo colpire i volti e la cinepresa per destare la giusta impressione e un vivo memorizzare delle scene che si dimenano con forza ma non riescono completamente ad uscire per entrare (nello sguardo di altri). Una ricerca di ripresa che smorza ogni soppeso di groviglio di corpi (e di sangue): il ghiaccio si rompe ma il caldo attoriale rimane schiacciato dentro lo schermo. E il pubblico presente si affida a titoli di coda imbiancati e a una musicalità da ‘ritorno’.
   Voto: 6.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati