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Un sapore di ruggine e ossa

Regia di Jacques Audiard vedi scheda film

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La recensione su Un sapore di ruggine e ossa

di ed wood
8 stelle

Dopo il falso capolavoro "Il profeta", in realtà clamoroso scivolone dove una sceneggiatura complicata finiva per soffocare la grazia registica, Audiard torna alla sua tazza del tè, ossia le storie minimali di coppie borderline, afflitte da limitazioni fisiche, ma non per questo intente a rinunciare ad una vita di passioni anche criminali. Il cinema di Audiard è un appello disperato alla fisicità, all'azione, che scardina però il classico concetto "live fast, die young": gli anti-eroi audiardiani non intendono autodistruggersi, ma vivere intensamente, rischiando grosso, pagando spesso un conto salato, ma avendo come obiettivo quello di sopravvivere, di emergere da quell'inferno di caos, violenza e impulsività che rappresenta la vita quotidiana nell'era neo-liberista, dove ogni persona viene abbandonata e può solo contare su se stessa. In questo scenario politico, che viene esplicitato, quasi brechtianamente, in una paio di sequenze (rimanendo quindi fintamente marginale alla vicenda, in realtà orchestrandone lo sviluppo), si viene ad inquadrare l'ambiguità ideologica tipica di Audiard. Quella dei suoi protagonisti è una ribellione anarchica al Sistema o un cinico sfruttamento dello stesso? Ossia, siamo sicuri che Alì e Stephanie, come la ragazza sorda di "Sulle mie labbra" o il Romain Duris di "Tutti i battiti del mio cuore" siano dei veri ribelli, degli outsider, e non invece degli individui come tanti, privi di coscienza, conformisti, che accettano senza porsi troppe domande il fatto di vivere in una società che impone la lotta dell'uomo contro l'uomo come unica via al successo? Opportunismo, mercantilismo, sopraffazione fisica e morale: le leggi del capitalismo avanzato (degenerato) del terzo millennio applicate meticolosamente da uomini indefessi e donne volitive, capaci di fare di necessità virtù per raggiungere egoisticamente (per quanto soffertamente) il loro benessere. Un messaggio inesorabilmente individualista, a tratti sociopatico. Poco sappiamo di Ali e Stephanie, del loro passato, delle loro aspirazioni. E poco dialogo c'è tra di loro. Ci sono solo i loro corpi lacerati, la loro reciproca attrazione, il loro reciproco sfruttamento. Un cinema tutto di nervi, di scatti, di sfregi. Montaggio e regia, tutto sincopi e divagazioni, riscattano il solito copione imperfetto, che alterna felici intuizioni ad evitabili sottolineature: un cinema di poesia, come quello di Audiard, merita script leggeri. E di poesia ce n'è parecchia in questo film: bastino, come esempio, tutte le sequenze in cui compare l'orca assieme a Stephanie, rappresentazione quasi malick-iana di una grazia (in questo caso puramente laica) costretta a convivere con il male, con il dolore, con la tragedia (aspetto tipico in Audiard: come le dita di Romain Duris, capaci di uccidere come di suonare le migliori melodie). Al di là delle riserve estetiche ed ideologiche che si possono avere su questo autore, è impossibile non riconoscere la peculiarità del suo sguardo e della sua visione del mondo: oramai, un film di Audiard si riconosce da poche inquadrature, come per tutti i grandi registi.

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