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Un sapore di ruggine e ossa

Regia di Jacques Audiard vedi scheda film

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La recensione su Un sapore di ruggine e ossa

di M Valdemar
8 stelle

A colpi duri, durissimi, vivi e vigorosi, Audiard frantuma l’impenetrabile crosta di ghiaccio che racchiude animi irrequieti corrosi dalla ruggine della degenerativa struttura-esistenza, che li divora dall’interno e li colloca in uno stato di autoisolamento  e smarrimento perenne. Condizione comune, collettiva, testimonianza dei tempi e delle molteplici angosce che intercalano, interrompono l’attuale nevrotico (soprav)vivere.
Ognuno si difende e sfugge come può, come sa. Ali è un bambinone dentro un corpo da energumeno, che procede col proprio passo - rozzo, ineducato, brutale - senza pensare alle conseguenze (le disattenzioni verso il figlio, Sam; provoca il licenziamento della sorella; non si cura dei bisogni della neocompagna), perché egli obbedisce esclusivamente alle proprie necessità primarie: cibarsi, dormire, fottere, tirare pugni. I soldi sono un problema, l’instabilità lavorativa è una costante: quale modo migliore allora di andare avanti se non combattendo? Incontri clandestini, scommesse, nessuna tutela, solo la garanzia che vince chi rimane in piedi per ultimo, con i segni della violenza sul corpo e il sangue che ribolle nelle vene e s’assapora in bocca: dolce, acre, caldo, voluttuoso. E misto a denti, ossa-trofei da esibire e risputare fuori assieme alla furia che non si placa, che alimenta implacabile l’irrefrenabile voglia di tenere gli occhi chiusi e le mani pronte a menare. Sempre.
In un universo distante, remoto, seppure allocato nelle medesime plumbee dimensioni di un’inconsueta esangue Costa Azzurra crocevia di ristrettezze economiche e precarietà, si muove, leggiadra e pesante, sicura di sé e confusa, Stéphanie, addestratrice di orche al parco acquatico d’Antibes e attraente donna desiderata e desiderosa di sguardi languidi, vogliosi. La sua primissima inquadratura ne mostra, cinicamente e chirurgicamente, le bellissime gambe. Le stesse che danzano frenetiche e irresistibili nella discoteca in cui Ali svolge la temporanea mansione di buttafuori; le stesse che saranno strappate da un’orca sfuggita al controllo (scena crudissima, “sotterranea“, più che mostrata, “avvertita” con inquietudine e orrore crescenti). La sospensione di tutto, di uno st(r)ato costituito da apparenza e disordine, in cui un fidanzato geloso è solo un altro oggetto appartenente al sistema-caos. Stéphanie perde o allontana ogni cosa: la bellezza sfiorisce, il fidanzato svanisce, il lavoro è un ricordo distante e doloroso, l’igiene (anche mentale) non ha senso, il sole fa male alla vista.
E poi le gambe: non ci sono più.
Ali e Stéphanie, due realtà che si corrispondono; si comprendono pur non capendosi, sono complementari anche se sono così diversi. Si amano senza saperlo, ma soprattutto hanno bisogno uno dell’altra: lei del suo distacco, della sua totale assenza di pietismo, della sua “operatività” sessuale; lui del suo attaccamento, del suo affetto.
Un percorso da condividere, irto di ostacoli, di malintesi, d’insanabili divergenze, eppure funzionante, fatto di piccole conquiste personali e sentieri affrontati insieme e con reciproco sostegno. Così la fu addestratrice di cetacei prima assiste ai combattimenti feroci e animaleschi dell’uomo-bambino e poi ne diviene manager, mentre lui la porta al mare, a spasso, la scopa.
L'ennesimo errore di Ali, cui non sa porre altro rimedio se non la fuga, rimette tutto in discussione, in una stasi emotiva e intima congelata, infranta solo dalla disperazione lacerante (causata da una disattenzione quasi fatale) che si materializza con inusitata violenza inferta con le mani (e le proprie ventisette ossa) sulle lastre di ghiaccio che hanno inghiottito l’innocente figlioletto. Colpi disperati, sconquassanti, che scardinano altresì la sua granitica, spessa corazza di uomo primitivo e affettivo; e gli rivelano, finalmente l’affetto per Sam, per Stephanie, per se stesso.
E se le gravi fratture alle mani non guariscono completamente e il dolore che provocano mai cesserà di ripresentarsi e ricordare sciagure avvenute o scampate, le fratture delle ossa che costituiscono lo scheletro ferito tormentato e impaurito di una relazione sentimentale (im)possibile si possono ricomporre e assumere una nuova forma, una unione in cui gambe e mani malridotte superano l’handicap e articolano un legame concreto, in divenire, da vivere.
Forse c'è ancora speranza.

E' sicuramente più interessato al racconto di anime pericolanti, in bilico tra il compatirsi/dannarsi e l’accettarsi, Jacques Audiard, che al canonico narrare e mostrare gli accadimenti che le vedono coinvolti. L’orribile aggressione dell’orca si esplicita attraverso prospettive differenti, ridotte all’osso, quasi ovattate, che suggeriscono in maniera sottile e parimenti sconvolgente il drammatico sventrar brandelli di donna e le sue più elementari attività. L’acqua attutisce, filtra, suggestiona; alfine, si tinge. E lo spettatore percepisce, partecipa, sa. Con il medesimo criterio, il regista francese, ben lungi dal lasciarsi trasportare da un respiro meramente didascalico, sviluppa una storia complessa e ricca di fatti; fatti che però passano in secondo piano - e sovente appena abbozzati - subordinati, come sono, all’intelaiatura introspettiva dei personaggi. Non c’è attenzione morbosa alcuna nell’indugiare illustrativo (strumentale all’approfondimento psicologico) della condizione tragica in cui si trova improvvisamente Stéphanie, di cui Audiard ne tratteggia con cura e delicatezza ogni aspetto: la confusione, il rifiuto, il rinchiudersi agli occhi del mondo, la mancanza degli arti inferiori come pezzi fondamentali del proprio cammino e del sentirsi persona. Persona che, grazie all’aiuto “ignorante” e disinteressato del picchiatore Ali, torna a vivere, a pulsare di energie e desideri tenuti in precedenza celati negli anfratti oscuri di una negazione incondizionata; riuscendo, finalmente, ad accettarsi (come testimonia la bellissima e struggente scena del ritorno sul posto di lavoro quando, da dietro la vetrata, rinnova la sua intesa con l’orca).
Lavorando sulla scrittura e sulla messa in scena come un tessitore di trame concrete, tangibili, per quanto talora poco gradevoli (non c’è nulla di romantico né di affascinante nelle sequenze di lotta che producono solo stridore di bestie al macero, sudore e sangue, dal cui sgorgare si formano rivoli che seguono i solchi scolpiti da vissuti tortuosi; così come affatto carini sono gli scontri tra lavoratori, vere e proprie guerre tra poveri), il regista configura personaggi dallo spessore sempre credibile, dall’intensità modulata su onde variabili (e variabilmente schizofreniche) che sono le medesime che investono la quotidianità di tutti noi. Il tutto con robusto rigore e sincerità, e senza cedere a biechi moralismi e pietismi e alle lusinghe di virtuosismi fini a se stessi.
Un sapore di ruggine e ossa è un’opera importante che, pur non raggiungendo le vette sublimi de Il profeta, ha un valore significativo e che attiene strettamente l’attualità, della quale ne analizza la complessità e le crepe, le contraddizioni. Rappresenta inoltre, qualora ce ne fosse bisogno, un’ulteriore riconferma del talento di Jacques Audiard.
Talento di fine narratore e scrutatore di animi, di solido espositore di realtà, di attento e scrupoloso direttore d’attori.
Imprescindibile, infatti, è il contributo degli interpreti. Se il belga semisconosciuto Matthias Schoenaerts (Ali) sorprende per come conferisce al suo personaggio irruenza, tenerezza, e puro istinto a motivarne/caratterizzarne scelte, sbagli, ogni (in)decisioni, Marion Cotillard offre una prova magnifica e di autentica, total(izzant)e partecipazione. Recita con il corpo - mutilato, azzoppato, claudicante, sensuale - e con gli occhi, dei quali ne sottolinea con grandezza ogni sfumatura, rilevante o appena percettibile che sia. Sul suo volto, segnato da tormento e sofferenza, passano in modo assolutamente verosimile tutti gli stati d’animo possibili, e sempre impressionanti per aderenza e credibilità.
Una coppia d’attori meravigliosa per un grande film. Appena scalfito, comunque, da un finale forse non necessario ed esagerato che segue invece quello straordinario frantumare di ghiacci e d’ossa.





 

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