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Qualcuno da amare

Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film

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La recensione su Qualcuno da amare

di spopola
8 stelle

Il cinema inizia con D.W Griffith e finisce con Abbas Kiarostami (Jean-Luc Godard)

 

Like someone  in love è il titolo originale (che cita dichiaratamente quello di un classico della canzone americana inserito anche nella colonna sonora)[1] dell’ultima fatica di Abbas Kiarostami adesso sui nostri schermi, tradotto con una certa approssimazione in Qualcuno da amare.

Un Kiarostami a sua volta esule “errabondo” (questa è una coproduzione Franco/Giapponese) che sembra però aver perso nel trasloco forzoso la purezza immacolata dello sguardo e lo smalto del suo straordinario “periodo iraniano” forse ormai irrecuperabile nella nuova realtà che lo circonda. Lontano dalla sua terra, è come se avesse smarrito una fetta importante di quella sua antica e genuina ispirazione (o forse si è semplicemente appannata la sua vena  in un ancora irrisolto periodo di transizione che lo vede incapace di chiudere definitivamente col passato per aprirsi a nuove suggestioni non completamente e perfettamente messe a fuoco, ma che se siamo buoni osservatori, riusciamo ad intravedere in filigrana).

Il problema principale, riguarda proprio il suo inimitabile stile, che rimane sostanzialmente immutato nella forma, ma si trasforma però preoccupantemente in “maniera” e  diventa così e di  conseguenza, meno palpitante e “necessario”, come se si trattasse di una riproduzione in vitro e non rappresentasse più una primaria necessità narrativa e di rappresentazione strettamente connessa al racconto (Marzia Gandolfi su Mymovies  ha a mio avviso giustamente osservato che le sue ultime opere, diversamente da quanto avveniva in precedenza “esagerano la maniera e difettano il guardare acuto e limpido sul reale”). Sono insomma lontani i tempi in cui il semplice suono di un cellulare era capace di creare un’ emozione viva e bruciante dentro a una storia molto lineare e viaggi fatti di incontri e di silenzi incorniciati in un paesaggio di straordinaria bellezza e spesso “ostile” capace da solo di creare un’empatia profonda con lo spettatore.

Intendiamoci: non è un brutto film, tutt’altro, ma se ci si riferisce a quel passato glorioso, a me sembra adesso un cinema troppo ripiegato su se stesso che riesce soltanto a trasmetterci l’eco attutita della grandezza assoluta di opere fondamentali come (cito in ordine sparso) Dov’è la casa del mio amico? (che lo proiettò clamorosamente nella galassia dei grandi nel 1987), Il sapore della ciliegia, E la vita continua, Il vento ci porterà via, Sotto gli ulivi o Dieci (che abbandonando molte convenzionali regole della sceneggiatura sembrava volerci invitare a confrontarci con un inusuale e innovativo nuovo modo di fare cinema),elascia di conseguenza un poco di amaro in bocca (o per meglio dire, e cito ancora la Gandolfi, “il rimpianto dell’originale contro le copie prodotte in ‘cattività’” , imitazioni ugualmente ben fatte, ma che non riescono però ad essere altrettanto straordinarie).

Questa sua ultima pellicola (un’accorata riflessione su amori e disamori), è anche un tentativo (a mio avviso solo parzialmente riuscito) di combinare le suggestioni e i simboli della cultura orientale con i meccanismi e i differenti equilibri della commedia sofisticata americana rivisitata, il tutto rivisitato in chiave assolutamente anticommerciale, per cercare così nuovi sbocchi alla sua arte. Ciò che ne esce fuori è un film filosofico e teorico di indubbia ed elegantissima fattura che prova a proporre anche qualcosa  di inedito (per lui) che alla resa dei conti risulta però incompiuto, come se si trattasse di una faticosa gestazione che non ha ancora trovato il suo perfetto equilibrio fra vecchio e nuovo e che per questo finisce per affidare il compito di riempire i troppi vuoti al paziente contributo dello spettatore che deve metterci molto del suo per trarre qualche conclusione, in quello che si potrebbe definire un viaggio dentro l’identità dei caratteri che finisce spesso per girare a vuoto.

E’ insomma un raffinato esercizio di stile che nel “riprodurre se stesso” all’infinito, vorrebbe forse provare a dire anche dell’altro, e dove ancora una volta la struttura narrativa (di nuovo molto esile)  è  poco più che un preteso utile per descrivere il tenue limite quasi impalpabile che esiste fra la realtà e la sua rappresentazione, esaltare (a suo modo) la sospensione estatica del tempo che trascorre, e mettere soprattutto in evidenza le difficoltà (oggettive) di comunicazione  fra generazioni diverse (che traggono origine già dalle profonde distanze e differenze di linguaggio).

Anche qui, esattamente come nei capolavori sopra menzionati (ma con molta meno poesia), il lavoro del regista è scandito e costruito sui gesti quotidiani, sulle piccole cose, su incomprensioni e sentimenti taciuti e tutti da scoprire (quasi da inventarsi si può dire) e riproposto con azioni staticamente reiterate fino all’esasperazione, o movimenti minimali sviluppati con la proverbiale lentezza spesso molto vicina all’immobilità che è il segno di riconoscibilità più “certo” di tutta la sua cinematografia passata e presente, ma che questa volta sembra aver messo da parte la costruita spontaneità dei suoi magnifici racconti esistenziali di formazione, per abbandonarsi invece a un cinema che senza nulla lasciare della classicità di uno stile ormai consolidato, ha però il difetto di farsi sedurre dal fascino introspettivo dei paradossi e delle parole (che un poco stridono con l’andamento pacato delle immagini) alla ricerca di una sfuggente verità davvero difficile da riconoscere e fissare.

E’ un incontro decisamente casuale quello che farà nascere un rapporto di  partecipazione affettiva e di comprensione tra due solitudini: la protagonista femminile è una giovane studentessa giapponese di sociologia che la notte si prostituisce per denaro, e che per questo suo “lavoro” straordinario, viene ingaggiata per una serata che prevede ovviamente una “prestazione” col cliente occasionale che l’ha opzionata. La ragazza non vorrebbe presentarsi all’appuntamento perché è venuta a farle visita la vecchia nonna e prova a ritirarsi, ma il cliente, un vecchio professore in pensione con una casa piena di libri, che ha intravisto nella bellezza della giovane una similitudine con i tratti somatici di sua figlia con cui non ha da tempo più rapporti, insiste nel chiedere la compagnia della fanciulla che creerà l’impatto necessario per spostare il rapporto dalla prestazione sessuale a una semplice cena al lume di candela, preludio di una frequentazione più assiduamente condivisa.

Con un racconto insomma un po’ bizzarro sulla costruzione fallace di un incontro di vita fra due persone così distanti e differenti anche come età, complicato per altro dalla presenza ossessiva del fidanzato della donna, Kiarostami prova a descrivere “l’invadenza narcotizzante e rassicurante della modernità, l’aggressività e la dignità dei silenzi” (Domenico Barone) ma è proprio il suo stile documentaristico (in buona parte mantenuto sullo sfondo) che fa da zavorra e che solo a tratti consente di entrare davvero in sintonia con una dimensione più intima e di “conoscenza” che rimane  invece sospesa  fra “finzione” e “menzogna” già in partenza molto labile e un poco surreale, da risultare quasi impalpabile alla percezione. La fitta ragnatela di rapporti “inconclusi” e “inconcludenti” fra conflitti e relazioni, non è aiutata certo da uno sguardo che ritorna spesso e ciclicamente sugli stessi luoghi, e meno ancora da un copione che sovente ripete analoghe parole e identiche frasi, ad aumentare la staticità (a volte in questo caso disturbante) dell’insieme che può persino disorientare un poco lo spettatore meno accorto e preparato.

Il regista, che conserva un delicato pudore nel mettere in scena i sentimenti e gli imbarazzi a cui accennavo prima, conferma così anche la sua predilezione per una dimensione irreale e un po’ fatalista delle cose, riuscendo comunque a filmare dettagli e circostanze con il necessario distacco, la giusta ambiguità di fondo, e soprattutto con l’acutezza dell’osservatore esterno che registra e non giudica le spesso incomprensibili complicazioni dei contatti prolungati fra due diversità difficilmente conciliabili, e che assiste quasi come un entomologo che  prende appunti per un successivo sviluppo più analitico (che qui però viene a mancare) di due destini incrociati e spesso in collisione sul cui approdo finale è davvero  difficile (quasi impossibile) dare delle risposte certe.

All’attivo dell’opera c’è in ogni caso (e non è cosa di poco conto) la bellezza formale dell’insieme,  come sempre inappuntabile in Kiarostami, e la naturalezza di una visione priva di sovrastrutture che analizza e seziona la lontananza fra mondi opposti ma comunque complementari (e nel riprodurre proprio quella che potrei definire “la fatica quotidiana dei rapporti”, il regista è bravissimo a riproporci e a farci percepire pur fra troppe pause di rallentamento che in questa circostanza sarebbe forse stato più giusto tenere sotto controllo, i ritmi fluenti e sincopati della vita con un processo certamente faticoso per lo spettatore, che conferma la sua vocazione verso una struttura narrativa sempre in divenire, in cui si percepisce la sua insolita capacità - che qui però come già detto avrebbe bisogno di una dimensione meno dilatata - di tratteggiare  identità incomprese e inappagate, alla ricerca di affetti e di delicati equilibri difficilissimi non solo da trovare, ma anche e soprattutto da mantenere).

Come sempre esemplare l’utilizzo di una cinepresa  puntuale e rispettosa nel seguire docilmente i movimenti e le pause (gli statici “pedinamenti a camera fissa”) immaginati dall’autore che la bella fotografia di Katsumi Yanagijima rende plasticamente appropriati e giusti elemento di “mediazione visiva” e di comunicazione.

Nonostante le riserve e l’esito fortemente contrastato già evidenziato nel suo burrascoso passaggio dal Festival di Cannes nel 2012, io comunque continuo a dare credito al regista. Penso infatti che si tratti di un periodo di parziale disorientamento (quasi una necessaria pausa di riflessione) quello che sta generando gli evidenti scompensi che ho provato a mettere in luce, derivanti anche dai molti cambiamenti nel privato, primo di tutti il suo dover adesso lavorare lontano dalla sua patria d’origine confrontandosi di conseguenza con altre realtà e altre cinematografie molto lontane da quella che ha contribuito alla sua formazione.

Questo mio essere ottimista è che dovuto al fatto che rispetto a Copia conforme le differenze in positivo sono evidenti e tutt’altro che secondarie. Allora, anche se molto resta ancora da fare, e ritrovare (primo fra tutti il coraggio di lasciare la certezza di un modo di fare cinema che ormai lo condiziona troppo e sembra diventato semplicemente asfittica ripetitività priva di futuro) io credo davvero che debba rinnovarsi profondamente anche nella forma visto che per il momento i lunghi percorsi di una volta fatti di strade sterrate ed imperviamente sassose gli sono stati preclusi. So quanto è difficile lasciare il certo per l’incerto, ma alle volte è davvero necessario avere il coraggio di tentare.

Per questo e nonostante tutto (e soprattutto per l’amore che porto per suo cinema delle origini), gli assegno sulla fiducia (nel futuro) le proverbiali quattro stelle, anche se il voto più giusto sarebbe questa volta – parere certamente “discutibile” e tutto personale - quello delle tre stelle, o al massimo delle tre stelle e mezzo.

 

Lately I find myself out gazing at stars
Hearing guitars like someone in love
Sometimes the things I do astound me
Mostly whenever you're around me
Lately I seem to walk as though I have wings
And to sing like someone in love
Each time I look at you I'm light as a cloud
And feeling like someone in love.

Sometimes the things I do astound me
Mostly whenever you're around me.

Lately I seem to walk as though I have wings
Run into things like someone in love
Each time I look at you I'm light as a cloud
And feeling like someone in love
Like someone in love, Like someone in love
(Burke/Van Heusen, Like someone in love)



[1] Like someone in love, composta da Johnny Burke e Jimmy Van Heusen nel 1944  per la colonna sonora del film Belle dello Yukon (e in quell’occasione interpretata da Dinah Shore) poi portata al successo internazionale l’anno successivo da Bing Crosby e diventata col tempo uno dei classici “evergreen” della canzone americana del novecento che conta diverse esecuzioni di valore fra il melodico e il jazz, molto diversificate fra loro (da Frank Sinatra a Ella Fitzgerald, fino alla più recente versione offerta da Bjork, per non parlare di quelle solo strumentali fra le quali spiccano quelle di Chet Baker e John Coltrane).

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