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The Wall

Regia di Julian Pölsler vedi scheda film

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La recensione su The Wall

di OGM
8 stelle

Le parole sono tutte fuori campo. Al di qua del muro non c’è alcun bisogno di parlare, perché si è da soli. Una donna prigioniera dentro una barriera invisibile, che la separa dai suoi simili, smette persino di avere un nome. Comincia a vivere solo per se stessa e per i pochi animali – un cane, due gatti, una mucca, un vitello, un corvo bianco – che le fanno compagnia, lassù, in mezzo alle montagne, in una vecchia tenuta di caccia, in una piccola malga isolata. Lei non sa come si sia ridotta così. Era arrivata per una vacanza, al seguito dell’anziana coppia presso cui era a servizio. Poi loro sono inspiegabilmente scomparsi, e, insieme a loro, anche il resto dell’umanità. Tutti sono forse fuggiti, o forse sono morti, trasformati in statue immobili, dall’altra parte di quella lastra di vetro che, per la protagonista di questo incubo, è il confine invalicabile del suo piccolo universo. Dentro quella gabbia si perde il significato dell’esistenza, per riscoprirlo duramente, giorno dopo giorno, con la fatica di proteggersi dalle intemperie e procurarsi il cibo. La natura diventa l’unico interlocutore.  I suoi argomenti sono le sue leggi ed i suoi misteri: sono principi immutabili, alle quali bisogna sottomettersi, fino al punto di smettere di pensare con la propria testa. L’io prende lentamente a irradiarsi nell’ambiente circostante, vuoto, silenzioso e sovrano, mettendovi radici che si estendono fino alle origini sconosciute della nostra specie. L’essere umano cessa di corrispondere alla definizione usuale, depone il raziocinio, il senso del tempo, la dimensione sociale, la voglia di cambiare l’ordine delle cose. Ma non per questo diventa una bestia. Si spoglia delle sovrastrutture culturali, però non indossa le vesti primitive dell’istinto. A queste preferisce una nudità impregnata di una vaga, genuina idea dell’amore. L’eremitaggio forzato induce a valorizzare la presenza dell’altro – qualunque esso sia – trasformandolo nel segnavia di un viaggio avventuroso, di un percorso di decifrazione della realtà in quanto tale, privata delle convenzionali codifiche strumentali. La terra è la terra. Il vento è il vento. Portano frutti o distruzione, seguendo un’ignota necessità, e senza un perché comprensibile. Occorre mantenere la coscienza attaccata a questa inquietante certezza, per non sprofondare nell’oscurità. È per questo motivo che la donna decide di scrivere, registrando avvenimenti, emozioni, riflessioni,  spunti attinti alla memoria o alla mutevole contingenza di un presente cangiante come l’erba smossa dall’aria. Lei resta costantemente muta, mentre comunica con le note dei suoi diari, gli accenti dei suoi sguardi, i ritmi dei suoi movimenti. Il romanzo di Marlen Haushofer racconta una solitudine instancabilmente attenta a se stessa, sempre pronta a cogliere ogni sua sfumatura, ogni nuovo modo di operare come interfaccia verso un esterno sfuggente ed estraneo, eppure carico di tensione  speculativa, come un enorme nulla pulsante. Di questo battito cupo e remoto il regista austriaco Julian Pölsler riproduce l’eco, scrupolosamente analitico e finemente concitato, scandito dal passo cauto e variegato del linguaggio letterario. Le sfaccettature lessicali della prosa originale sono colpi di cesello inferti ai concetti indefinibili, a cui un artistico gioco di sinonimi tenta di dare una forma  a più dimensioni, dinamicamente estesa dal concreto all’astratto, dalla descrizione al simbolismo. Intanto le immagini scorrono, ripetendosi, all’apparenza, sempre uguali, ma con una luce che continua a cambiare il proprio colore interiore. 

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