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The Story of Film

Regia di Mark Cousins vedi scheda film

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La recensione su The Story of Film

di spopola
8 stelle

“Il cinema si basa sulle idee e non sui soldi, non credete alle bugie che vi racconta Hollywood” (Mark Cousins)
 
E’ proprio sposando in toto il concetto che non sono i soldi (comunque sempre necessari perché fare cinema costa) ma le idee, l’innovazione, la ricerca e l’inventiva a fare la Storia dei Film e dei suoi registi (qualità queste che si rigenerano di continuo rinnovandosi quasi come l’Araba Fenicia che fortunatamente risorge sempre dalle sue ceneri qualunque cosa accada), e trasformando conseguentemente in prioritaria e privilegiata necessità narrativa questi elementi che diventano davvero centrali nel suo mastodontico lavoro di ricerca e di ricomposizione (non disgiunti ovviamente dall’impatto emozionale della visione), che Cousins ha pensato, organizzato e sviluppato la monumentale opera ora anche sui nostri schermi grazie alla BIM attraverso la quale il regista ha provato a ricostruire anche con le immagini oltre che con la parola, gli oltre 100 anni di cinema che ci stanno alle spalle.
Impresa davvero titanica la sua che trasuda cinefilia, amore e conoscenze e che nei suoi 900 minuti complessivi (15 episodi da un’ora ciascuno) si trasforma in un immaginifico viaggio empatico realizzato con competenza e fantasia che ci aiuta a riconoscere  - dalle origini appunto ai giorni nostri e persino nel suo ipotetico divenire pieno di incognite, perché lui tenta veramente di andare oltre immaginando addirittura il “dopo”- il “bello” e “l’importante” di tutte le fondamentali tappe (e i conseguenti traguardi raggiunti) compiute da coloro che hanno fatto del cinema la Settima Arte. Lo fa, girovagando fra i generi, le nazioni, le cinematografie emergenti, gli imparentamenti, le suggestioni, le analogie, i riferimenti e i rimandi, per riproporci a suo modo (inteso come personale ma spesso condivisibilissima visione delle cose) quel cinema che è anche espressione “artistica” del pensiero, facendoci addirittura riconsiderare a volte, attraverso una riflessione seria e accurata, il tragitto ispirativo dei Maestri indiscussi e dei loro capolavori acclarati,  con un lavoro certosino davvero senza confini e restrizioni che spazia a 360° setacciando il mondo intero (e quindi dando per scontati e come inevitabili  - addirittura “necessari” direi - anche i tanti i possibili “omissis”che pure ci sono, alcuni persino un tantino “dolorosi” per il sottoscritto).  Un cinema che si incrocia spesso oltre che con la vita, con l’arte e con la Storia, dunque, oltre che con la geografia e la letteratura, corposo e appassionato.
Non si poteva ovviamente fare diversamente, vista la densa materia di riferimento perchè davvero, nemmeno con un numero di ore così cospicuo, era possibile farci rientrare dentro veramente tutto ciò che si ama, se si ha l’ambizione (perfettamente rispettata) di spiegare, fare assiomi, e non semplicemente di limitarsi a “citare”, come in un semplice quanto sintetico e sterile compendio orientativo fatto di nomi, riferimenti e date, utile solo per una consultazione ad uso e consumo di chi ama le statistiche o ha bisogno di “conferme” per ciò che già conosce e apprezza e per poco altro. Le scelte sono sempre dolorose (e a volte persino discutibili a seconda di chi osserva e valuta il risultato, essendo opzioni inevitabilmente soggettive) ma l’importante è la coerenza delle idee, il riuscire a rispettare compiutamente il disegno tracciato sulla carta, e soprattutto il procedere poi nel corso della realizzazione, con omogeneità e in assoluta sintonia con il proprio obiettivo complessivo che forse nel regista è anche quello di raccontare come la regia sia una bugia per dire la verità (Maurizio Porro su FilmTV), o per lo meno per renderla più evidente e comprensiva. Allora pur fra le tante assenze, basta forse anche un accenno, il riferimento a un nome, lo scriverlo persino su una sedia (che dice molto di più di ciò che rappresenta) come accade proprio nel bellissimo pre-finale, per rendere giustizia agli esclusi che “aleggiano” in ogni caso imperiosi fra le pieghe del racconto, si librano in alto con analogo trasporto ed importanza, ci sono “dentro” e possiamo essere noi se siamo intenzionati a farlo, a resuscitarne le immagini e il ricordo con la nostra personale memoria “cinefila” di riferimento, senza per questo alzare però il dito contro chi ha intessuto le trame a noi non sempre congeniali di questo imperdibile excursus davvero stratosferico come impegno e dedizione (privo se non altro delle banalità e dei luoghi comuni che si possono invece ritrovare – al fine appunto di “semplificare” - in altre operazioni similari meno analitiche di questa), che ha richiesto ben sei anni di lavoro di cui due interamente dedicati al montaggio per arrivare prima a un first cut della durata complessiva di 90 ore (dove sicuramente c’era davvero “tutto” e magari anche di più), dal quale è stato poi inevitabile agire in “sottrazione” per arrivare a un apprezzabile ed accettabile compromesso che risultasse comunque assolutamente esaustivo e pertinente (tendo a sottolinearlo e riconfermarlo con forza: il risultato è stato raggiunto in pieno) al fine di ricondurlo a un qualcosa di ugualmente “anomalo” per la sua ampiezza, ma comunque più facilmente fruibile persino in sala (con qualche accorgimento ovviamente) o attraverso il supporto del DVD che sarà disponibile a breve (credo a partire dal 4 dicembre, e che potrebbe diventare un’ottima strenna natalizia).
 
Lo ha dichiarato lo stesso regista (e mi scuso se mi ripeto) che anche se 15 ore possono sembrare tante, in realtà sono poca cosa se si vuole veramente provare a raccontare l’intera storia del cinema, per altro con un taglio inedito come quello che lui le ha voluto riservare: il mio intento – sono parole dello stesso Cousins rilasciate nel corso di un’intervista – non era solo quello di raccontare il cinema e la sua storia. Volevo andare anche un po’ oltre le immagini, e soprattutto aprire nuovi orizzonti – alcuni degli importanti titoli su cui mi soffermo non sono stati purtroppo molto “frequentati” e visti dallo spettatore medio e presentano pesanti lacune da colmare anche nella critica ufficiale, specialmente quella di più recente formazione – mostrando al di là di ciò che conosciamo meglio o che il mercato ha reso maggiormente fruibile anche fra i capi d’opera, pure quei titoli e quei nomi o addirittura intere cinematografie di altrettanto valore, che hanno fatto invece molta più fatica ad entrare nella “leggenda” condivisa e a volte non ci sono entrati nemmeno e non certo per loro demerito, ma per le ferree e brutali leggi del consumismo e dell’economia di sistema, oltre a far vedere anche (ma questo vale soprattutto per lo spettatore)  cosa accadeva “alle spalle di ciò che poi sarebbe passato sullo schermo” (quelle per esempio di Ingrid Bergman ed Humphrey Bogart) in pellicole indimenticabili come Casablanca. (…) Avevo già scritto un libro al riguardo (che porta  lo stesso titolo della pellicola, ma a quanto mi risulta non di facile reperibilità almeno qui in Italia) ma avevo la consapevole certezza che il farlo attraverso le immagini, mi avrebbe consentito di utilizzare un mezzo perfetto per portare lo spettatore – anche il più impreparato – proprio dentro il cuore della narrazione e rendere così più chiari i rapporti e i riferimenti. Come ho già accennato in più di un’occasione, sono partito proprio per questo da un concetto importante e fondamentale nell’organizzare la mia personale Storia della settima Arte che è poi quello di ritenere che non sono gli incassi sbandierati sui giornali (e non dovrebbero esserlo nemmeno gli amori e i pettegolezzi sulle attrici, il gossip o la notorietà) che devono orientare gli spostamenti degli spettatori verso i cinema da fruire in sala o con qualunque altro mezzo disponibile, bensì la forza visiva delle storie che vengono raccontate, l’innovazione linguistica, l’evoluzione sintattica, ed è proprio questo che ho provato a tenere prioritariamente presente nel mio racconto perché esattamente come la storia della pittura, anche quella del cinema è interamente basata sulla creatività, e su questo nessuno potrà sconfessarmi o provare a darmi torto. La mia scelta di campo magari anche opinabile per qualcuno, è stata quindi quella di portare in primo piano soprattutto la storia degli innovatori, di coloro insomma che hanno cambiato la storia del cinema nel loro paese e dell’influenza che hanno avuto anche sugli altri, creando  uno spartiacque “certo” fra il “prima” e il “dopo”. Non potevo quindi proprio partendo da questa particolare ottica, dimenticare o anche tenere in secondo piano il cinema africano o i documentari giapponesi. Era importante infatti che risultasse un lavoro profondamente internazionale – il più trasversale possibile insomma – e che non dimenticasse nessuna delle numerosissime donne-regista presenti in tante nazioni e spesso trascurate e relegate in secondo piano.  Desideravo inoltre realizzare il tutto con uno stile che fosse  incontestabilmente cinematografico e quindi lontano dai cliché imposti dalla televisione (spero di essere riuscito a farlo mostrando immagini asciutte con il commento audio della mia voce (nella versione per l’Italia sostituita dalla altrettanto asciutta voce del bravissimo attore Massimo Corvo).
 
L’impatto, ve lo assicuro, è di straordinaria presa anche emotiva: visto nelle canoniche 7 settimane previste dalle selezionate programmazioni in sala curate dalla Bim e diviso  come ho già detto in quindici episodi (interessanti e autonomi anche da soli se rapportati al periodo o alle problematiche alle quali sono dedicati - in calce ne darò una brevissima sintesi esplicativa ripresa proprio dal programma divulgato in sala - ma che si riesce a percepire completamente per il loro straordinario valore intrinseco solo a visione ultimata, poiché si intersecano l’uno nell’altro con frequentissimi ritorni ed assonanze (vedi il rapporto esistente fra Bela Tarr e il suo Satantango e il cinema di Gus Van Sant, con particolare riferimento a Elephant  e soprattutto al da noi colpevolmente inedito Gerry) per riannodare i fili e ritrovare le radici lontane di opere anche più recenti e attuali.
Il cinema dunque e le sue molte evoluzioni, privilegiando quelle in cui anche la  tecnica si è piegata alle più importanti esigenze del cuore. L’approccio è diretto ed essenziale: colpisce soprattutto la dotta semplicità (tutt’altro che “professorale”)  del linguaggio utilizzato (con solo qualche superflua enfasi di troppo in buona parte utilizzata – e un tantino abusata - per sottolineare certe eccellenze che occupano un posto importante nel suo cuore), un elemento davvero determinante che permette di rendere fruibile l’opera ad ogni tipo di pubblico compreso quello più giovane (al quale è in parte dedicato per il bagaglio di conoscenze  non tutte certamente oggi abbordabili “in diretta” che si porta dietro) purtroppo – e fatte le dovute eccezioni che ci sono, eccome! e per fortuna” - sempre più immerso e interessato (lo deduciamo dai risultati pratici  degli incassi) in un coacervo di blockbuster  “affogati” dentro gli  effetti speciali resi possibili dalla tecnica moderna in continua, quasi frenetica evoluzione, ma non sempre utilizzati al meglio o in modo funzionale al racconto. Questo però, non significa che sia un lavoro troppo semplicistico (è ancora Mark Cousins a dirlo). I grandi registi iraniani vogliono che i loro film siano più puri all'esterno ma più ricchi all'interno ed è questo l'obiettivo che miravo a raggiungere: nel mio ripensare il cinema che sottopongo al vostro insindacabile giudizio, mi sono forse spesso proprio ispirato a loro.
Documentario enciclopedico dunque quello che ci troviamo a commentare, che racconta 115 anni di cinema e della sua storia condensati  - per la sala – in 7 indimenticabili giornate, necessarie per guidare lo spettatore in un lungo e seducente itinerario (che è anche un viaggio di forte impatto sensoriale) che si dipana nel tempo, ma anche nello spazio, e che va ad esplorare cinematografie davvero di tutto il mondo (comprendiamo quanto siamo “ignoranti” al riguardo, quanti e quali tasselli ci sono mancati e continuano a mancarci per pretendere di conoscere veramente a fondo e interamente la materia  che proviamo spesso a definire persino in scale di valori assoluti poco universalizzabili però, visto che hanno rilevanza solo nel nostro privato, soggettive come sono perché corrispondenti  a un “gusto” e ad una percezione individuale che anche quando prova a comporle in rapporto a parametri più trasversali e quindi inconfutabilmente “certi”, sono in ogni caso riconducibili semplicemente a quel comunque “poco” che abbiamo visto rispetto al “tutto” che ci sta di fronte) che racconta la nascita e lo sviluppo del cinema non solo in quelle nazioni più  conosciute e accreditate  per lo meno qui da noi in occidente, ma anche  e soprattutto in nazioni come l’India, la Cina, il Giappone, i paesi dell’Oriente in genere o del Sudamerica, o addirittura più “aliene” come possono risultare ai più quelle dell’Egitto o del Senegal, tanto per citare alcuni degli esempi più eclatanti e concreti.
Tutto è ovviamente relativo e - come ho già accennato sopra - anche le scelte fatte da Cousins possono dunque risultare per molti fortemente opinabili, ma non è questo il punto, né è poi la cosa più importante di un’opera che oltre che nella coerenza narrativa  di cui parlavo prima, ha il suo valore aggiunto in un eccellente rigore stilistico che si mantiene inalterato per tutta la durata della pellicola dove l’attenzione non viene mai annacquata, nemmeno per un attimo (a conferma che è poi anche il tempo ad essere alla fine “relativo” soprattutto quando si parla di cinema, perché qui le 15 ore che Cousins impiega per divulgare il suo racconto in immagini, sembrano davvero poca cosa, nel senso che vorremmo veramente che potesse persino durare più a lungo – addirittura all’infinito oserei dire – tante sono le suggestioni e la profondità di un’opera che con intelligente arguzia sviluppa sorprendenti collegamenti - anche se in qualche caso persino un po’ azzardati - fra registi e artisti di tempi e luoghi diverso e all’apparenza quasi “incompatibili”, con parallelismi  che in più di un’occasione (a me è accaduto veramente) nemmeno mi sarebbero potuti passare anche lontanamente dal pensiero ma che poi riflettendoci forse… in un crescendo narrativo che affronta il problema (e a me sembra che sia la prima volta che viene fatto con tanta completezza e competenza) come un tutto unico, un approccio globale insomma che avrebbe fatto felice Hegel , per la sua visione davvero sistemica del cinema  e dei suoi protagonisti (Marco Spagnoli).
 
Il film documentario (che si apre sulle immagini di Salvate il soldato Ryan di Spielberg) parte dall’invenzione del cinema stesso (e quindi dai Thomas Edison e i Fratelli Lumière) per arrivare fino ai giorni nostri (si conclude in un ipotetico 2046, quando magari sarà diventato tutt’altra cosa rispetto a ciò che conosciamo ogni, non solo come modalità di rappresentazione ma anche di “fruizione” da parte dello spettatore, con un girotondo – invero molto felliniano nell’assunto e nel senso – introno alla Statua della Pellicola eretta nel Burkina Fasu) raccontando non solo le storie dei protagonisti, ma affrontando anche movimenti artistici e fenomeni produttivi ad essi collegati (l’avvento del digitale per esempio, che ci sta pericolosamente allontanando dal reale spostandoci in un mondo di pura fantasia tutto virtuale: chissà quando allora ci ritroveremo ancora a parlare di noi – osserva di nuovo Maurizio Porro – come fanno i Dumont i Dardenne, i Coen o Haneke (…) perché il cinema, sia chiaro, è fecondato dalla realtà (…) perché la natura non è mai neutrale di fronte allo sguardo di un regista.
Il suo stile, vicinissimo a quello del cinema indipendente, è la concretizzazione visiva (non tanto polemica, quanto preoccupata, e che quindi intende rappresentare persino una alternativa possibile) di un orientamento ideologico che vuole essere a suo modo anche una risposta alla Hollywood dei giorni nostri, e al suo approccio da multinazionale dello spettacolo, per la quale i film sono produzioni che “devono fare soldi” e quindi da valutare, gestire e finanziare, soprattutto tenendo in evidenza il profilo economico del risultato di “ritorno” (troppo “bottegai” insomma e ormai purtroppo pochissimo “mecenati”).
Nell’universo narrativo di Cousins invece il cinema  è fatto da pionieri, arditi sperimentatori e registi che hanno “osano” (e provano ad “osare” ancora adesso nonostante i problemi e le limitazioni anche distributive). Autori insomma che ciascuno nel proprio ambito e con le rispettive professionalità, hanno guardato e guardano al loro lavoro da un’ottica che è soprattutto creatività, narrazione e innovazione anche stilistica e non certo (o almeno non principalmente o esclusivamente) da quella finanziaria, un elemento che contribuisce a rendere particolarmente stimolante il suo lavoro di ricerca, cinefilo e critico allo stesso tempo, che affronta il cinema sul piano strutturale, arricchendolo (e corredandolo) di un numero molto rilevante di interviste, testimonianze dirette che aiutano e contribuiscono ad esplorare le specifiche potenzialità del mezzo (le riprese, i movimenti di macchina, la profondità di campo, il montaggio, il sonoro, la sceneggiatura, la musica e i silenzi, gli effetti speciali oggi disponibili, etc. etc:): contributi diretti e fondamentali che ci portano a conoscere spesso anche le idee dei singoli autori rispetto al risultato poi conseguito. Un lavoro insomma che riserva grandi attenzioni non solo per Ozu e i paesaggi del taciturno John Ford (intervistato da Bogdanovich), ma anche e soprattutto verso il “grande” cinema invisibile, esplorando per esempio il cinema fortemente censurato dell’Iran travagliato dalle lotte intestine e l’intransigenza religiosa, o quello dell’importante rinascita ungherese, ma senza dimenticare i fondamentali apporti coreani e Thailandesi, con un occhio di riguardo per Hong Kong e le sue evoluzioni (dal  Kung–fu di Bruce Lee fino al cinema empatico di Wong Kar –Way) e per quello altrettanto anomalo di importantissime registe di sesso femminile come Claire Denis e non solo.
Struggente viaggio ricognitivo dunque che spazia (e mi scuso per le omissioni) da Chaplin  a Harold Lloyd, da John Ford a Ozu (già citati prima), da Pasolini a Donen, da Kiarostami alla famiglia dei Makhmabaf, da Terence Davies a Bertolucci, da Stanley Donen a Fritz Lang, da Jean-Luc Godard a Lubitsch, da Ken Loach a Hitchcock, da Rossellini a De Sica… e ancora Welles, Buster Keaton, Van Sant, von Trier, Campion, Oshima, Tarkovskij, Kubrick, Polanski, Bela Tarr e Sokurov, con un lavoro appassionante ed imperdibile che alla fine crea nello spettatore persino una sorta di dipendenza, sedotto dalla marcia inarrestabile di idee che hanno cambiato, se non addirittura “salvato”,  le vite di miliardi di spettatori in oltre 100 anni di proiezioni ed emozioni (Marco Spagnoli).
Qualcuno obietterà  che c’è poca commedia, scarsissimo Allen e niente Losey, e altrettanto scarsa rilevanza verso i nuovi emergenti, e visto che siamo in Italia, che l’approccio con il nostro cinema non può essere definitivo propriamente “ortodosso” (Visconti, Fellini o Antonioni non hanno lo spazio che meriterebbero, Ettore Scola o Francesco Rosi non sono nemmeno citati) ma come ho già detto prima e ribadisco, è solo un problema di scelte e di punti di vista personali, soggettivi e inoppugnabili, necessari per… evitare una “esondazione”: riferendomi all’Italia – ed è ancora Cousins a riferirl -, parlo soprattutto di Pasolini e Bertolucci e non do tutto il rilievo che meriterebbero a Visconti e soprattutto a Fellini, mentre l’importante filone della commedia italiana degli anni ’50 e ’60 è stato da me completamente trascurato. Questo perché mi sono concentrato soprattutto e lo ribadisco di nuovo, su quei nomi che sono stati capaci di inventare uno stile peculiare, capaci di fare proseliti anche “imitativi”. Io adoro il cinema italiano: si potrà constatare da come accarezzo con le immagini “Cinecittà” e ciò che ha rappresentato. Tra i miei registi preferiti di sempre, figurano Olmi e Pontecorvo anche se qui non ne parlo. In compenso, dedico molto spazio a Sergio Leone, al quale non avrei rinunciato per nulla al mondo. (…) Diciamo allora che essendo il cinema  una forma d’arte molto giovane, io ne ho raccontato l’inizio e la prima giovinezza, non certo la maturità (e soprattutto l’ipotetica fine – che non credo per altro possibile).  Ma come cineasta, se considero quanto è stata per me coinvolgente e piena questa esperienza, mi auguro davvero che non rimanga un caso isolato e che ci possa essere qualcun altro a continuare il mio racconto, visto che c’è ancora molto da dire e da esplorare…e che lo faccia seguendo ovviamente un suo punto di vista  personale che darebbe un ulteriore contributo per arricchire la materia.
 
Indice descrittivo dei vari episodi:


Episodio 1: 1895-1918 – “Il mondo scopre una nuova forma d’arte”; 1903-1918 - “Il brivido diventa racconto”
Agli albori del cinema, un viaggio tra l'ingegno e l'intuizione di uomini davvero straordinari.
Nel New Jersey, Thomas Edison scopre come una serie di immagini proiettate in successione all’interno di una scatola è in grado di dare l’illusione del movimento, mentre a George Eastman viene l’idea di avvolgere la pellicola in rulli. A Parigi, in un piccolo edificio situato in Boulevard des Capucines, i fratelli Lumiére proiettano il loro primo film, scatenando il panico in sala.
 
Episodio 2: 1918-1928 –  “Il trionfo del cinema americano e i suoi primi ribelli”
Mentre Hollywood diventa il luogo per eccellenza dell’industria cinematografica, gli artisti che lo popolano splendono di luce propria. Attori del calibro di Charlie Chaplin e Buster Keaton, star indiscusse come Robert Flaherty ed Eric Von Stroheim diventano i motori che muovono l’affascinante macchina del cinema, lasciando un’impronta indelebile nei ruggenti anni Venti.
 
Episodio 3: 1918-1932: “I grandi registi ribelli nel mondo”
Per l’industria del cinema, gli anni Venti rappresentano un’epoca d’oro: da Parigi a Berlino, da Mosca a Shanghai e Tokio, sette gruppi di artisti !ribelli” si cimentano con la nuova forma d’arte, facendo del cinema il loro laboratorio di sperimentazione e radicale trasformazione.
 
Episodio 4:“Gli anni ‘30. I grandi film americani di genere e la brillantezza dei film europei”
Come una rivoluzione, l’avvento del sonoro agita l’industria cinematografica, mutandone le forme e i contenuti. Nuovi generi si affacciano all’orizzonte: dalle commedie ai western, passando per il musical e l’horror, il pubblico sogna attraverso Via col vento e lascia ad Alfred Hitchcock il compito di affollare e rendere concreti i propri incubi.
 
Episodio 5: 1939-1952 – “La devastazione della guerra e un nuovo linguaggio filmico”
Mentre la Seconda Guerra Mondiale è in corso, l’industria cinematografica continua la sua incessante marcia, pur fra qualche difficoltà. Un cammino ricostruito fedelmente da Paul Schrader, Robert Towne e Stanley Donen, e una riflessione critica su uno dei periodi più controversi della sua storia che da Quarto potere a Cantando sotto la pioggia attraversa il decennio più controverso della storia del cinema.
 
Episodio 6:1953-1957 – “Il racconto enfatico. Il cinema mondiale sul punto di esplodere”
Nuovi sex symbol dominano la scena del secondo dopoguerra: James Dean e Marlon Brando infiammano il pubblico femminile, la passione diventa l’elemento centrale nelle pellicole di tutto il mondo. Ed anche l’oriente esprime fascino grazie ad attrici come Kyoko Kagawa e registi d’incredibile talento come Satyajit Ray e Akira Kurosawa.
 
Episodio 7: 1957-1964 – “La scossa del nuovo. Forme moderne di cinema nell’Europa occidentale”
Nel dopoguerra, l’Italia s’impone sullo scenario internazionale (il neorealismo di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica impone al mondo intero una nuova maniera di approcciarsi al cinema). Claudia Cardinale celebra poi il Maestro Federico Fellini, mentre Bernardo Bertolucci rievoca la collaborazione con Pier Paolo Pasolini. Non solo questo però, perchè da Ingmar Bergman al cinema francese, qui si parla e si racconta il meglio dell’arte europea a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta.
 
Episodio 8: 1965-1969 – Le ‘Nouvelles Vaugues’. Nuove ondate si propagano nel mondo”
A Hollywood negli anni ’60, pellicole come Easy Rider e 2001: Odissea nello spazio spalancano le porte ad una nuova cinematografia nel mondo, figure come quelle di Roman Polanski, Andreji Tarkovskji e Nagisa Oshima ottengono fama e riconoscimenti, mentre si affacciano sullo scenario internazionale nuovi registi provenienti dall’Africa e dall’India.
 
Episodio 9: 1967-1979 – “Il nuovo cinema americano”
Gli anni ’60 consacrano il successo di Dustin Hoffman: Buck Henry, autore de Il laureato, ci racconta la genesi del film e le ragioni del suo incredibile fascino mai tramontato. E mentre Paul Schrader ci traghetta nell’inferno di Taxi Driver e Robert Towne ci rivela il lato oscuro dietro Chinatown, una nuova corrente prende forma all’interno degli Stati Uniti, dove  nasce e si afferma il Black American Cinema.
 
Episodio 10:  1969-1979 – “I registi radicali negli anni  ‘70 raccontano lo stato della Nazione”
Partendo dalla Germania con Wim Wenders per approdare all’Inghilterra di Ken Loach, vengono presentati i registi che partendo dall’Italia, dall’Australia e dal Giappone, hanno esportato il loro talento in tutto il mondo. Un viaggio nell’Europa degli anni ’70, con una panoramica sul cinema nascente negli altri paesi emergenti. Soprattutto Africa e Sud America.
 
Episodio 11: “Gli anni ’70 e oltre. Nuovi linguaggi nel cinema popolare”
Gli anni ’70 si rappresentano come anni innovativi e di incredibile sperimentazione: Star Wars, Lo squalo e L’esorcista rappresentano solo alcuni esempi dell’intensa produttività di questo decennio, una decade dominata dall’avvento di Bollywood e dalla dirompente energia di Bruce Lee, capace di influenzare ancora oggi il cinema giapponese.
 
Episodio 12: “Gli anni ’80 – Cinema e proteste in giro per il mondo”
Con Reagan alla Casa Bianca e Margaret Thatcher a Downing Street, la politica e i moti di protesta si riflettono sul cinema degli anni ‘80: a parlarne è John Sayles, che rivelerà come le insurrezioni di Piazza Tienanmen, il crollo dell’Unione Sovietica e le rivoluzioni interne dell’Europa dell’Est abbiano cambiato per sempre il volto del cinema.
 
Episodio 13: 1990-1998 – “Gli ultimi giorni della celluloide prima dell’arrivo del digitale”
Gli anni ’90 rappresentano un’età dell’oro per il cinema mondiale: da Abbas Kiarostami e il suo realismo a Shinji Tsukamoto e il cinema horror, passando per la cinematografia controversa di Lars von Trier e la violenza delle immagini di Takashi Mike, un decennio spettacolare e di grandi trasformazioni nel cinema mondiale.
 
Episodio 14: “Gli anni ’90. I primi giorni del digitale. La realtà perde la concretezza in America e Australia”
Un decennio che non smette di stupire. I magnifici anni ’90 sono dominati dalle figure di  Quentin Tarantino e dalla freschezza dei suoi dialoghi, dalla potenza dei fratelli Coen e dall’emergente cinema australiano di Baz Luhrmann. E così, avvicinandosi al nuovo millennio, anche il cinema è pronto ad affrontare un salto di qualità, spalancando le porte al digitale.
 
Episodio 15: “Gli anni 2000 e oltre. Il cinema completa il giro: il futuro dei film”
Superato l’11 settembre, il cinema abbraccia nuove tematiche, scavando in profondità all’interno della società, delle sue contraddizioni e fantasie. Il sogno diventa così oggetto d’interesse per registi come David Lynch e Christopher Nolan, mentre l’Oriente si abbandona a una cinematografia sempre più innovativa. Una riflessione sul presente e sul percorso che il cinema intraprenderà nell’imminente futuro.

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