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Shark 3D

Regia di Kimble Rendall vedi scheda film

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La recensione su Shark 3D

di scapigliato
6 stelle

I film sugli squali assassini – così come quelli su ogni tipo di animale minaccioso, i cosiddetti animal-attack movies – non solo scomodano sempre l’archetipo spielberghiano con cui si confrontano anche senza volerlo, ma portano sulla tavola della discussione analitica immaginari, tematiche e figure mitopoietiche ben precise, dalle quali è impossibile esulare.
I tratti più significativi, e più serializzati, degli shark-movies possono essere: l’isolamento del protagonista – il Martin Brody di Roy Scheider fa scuola, ed è inarrivabile; l’ovvio elemento liquido predominante, con tutto ciò che consegue in termini psicologici: magma primordiale, habitat uterino, fisiologie umane di secrezione, etc.; la minaccia animale mostruosa, abissale, nascosta, invisibile, primitiva, quindi una minaccia ctonia, anche se appartenente al mondo marino e non al sottosuolo, quindi una creatura infernale, proveniente dall’Ade, dall’Acheronte; il risvolto psicologico per il quale sia il protagonista che la comunità minacciata dallo squalo devono lottare con un loro triste passato, da cui l’irrisolto protagonico: una morte di cui il protagonista ha la responsabilità – come succede in Bait, o più volgarmente Shark 3D – piuttosto che un blocco psicologico, come per il Martin Brody di Jaws, piuttosto che un’ombra a lui interna, proveniente dal passato tanto quanto lo squalo proviene dai mari infernali dell’Ade. Da qui, il passo verso una lettura psicoanalitica, anche di matrice sessuale è un passo breve e possibile. Lo squalo dopotutto è un fallo gigantesco che miete vittime sia femminili, perché è agente di libidine e maschilismo, sia vittime maschili, perché dispositivo freudiano di irrisolto omosessuale, che è poi il grande irrisolto occidentale.
Ora, di tutto questo nel film sceneggiato e impostato dal bravo Russel Mulcahy e poi diretto da Kimble Rendall, che con Cut – Il Tagliagole non aveva né entusiasmato né deluso, resta solo qualche brandello. Lasciamo pure stare la terza dimensione, inutile quanto vincolante, che rovina il film nel senso tecnico del termine, visto che è tutto sempre fuori fuoco, per privilegiare i soggetti in primo piano e quella profondità che Orson Welles e Sergio Leone avevano reso magnificamente in bidimensione senza alcuno sforzo. In più gli elementi visivi che dovrebbero uscire dallo schermo, per uscire escono, ma l’effetto è ridicolo, è come se fossero spiaccicati e sfocati sulla seconda dimensione e basta. Ad ogni modo, tecnicamente, il film risente del 3D che se sparisse ci farebbe un gran favore. Mentre invece, a livello tematico e narrativo, il film di Rendall non è male, ma perde il confronto con il prototipo di Steven Spielberg.
Il personaggio interpretato da Xavier Samuel è soltanto bello. È patetico nel suo eroismo forzato, patetico nel suo forzatissimo romanticismo. In lui, il blocco del passato, ovvero la morte dell’amico e fratello della sua promessa sposa per colpa proprio di uno squalo, l’allontamento di lei, il conseguente isolamento, è tutto appiccicato senza profondità alcuna, e l’attore, seppur belloccio e fisicamente invidiabile, non sa andare oltre al classico istrionismo. Gesti, pose ed espressioni sono le stesse di qualunque attore, non c’è nulla di personale, nessun commento autoriale sul personaggio, cosa che Roy Scheider, modello archetipale, ben faceva. Si può ipotizzare, tra squali e incertezze amorose, un problema fallico che blocca e zavorra il personaggio di Samuel, ma non assistiamo a uno sviluppo di questa traccia né tantomeno ad una risoluzione di essa. Con questo non voglio dire che il bel manzo australiano non valga una cicca come attore, perchè si intuisce una certa freschezza nella resa del personaggio, ma non è un mistero che stia costruendo la sua carriera sulla sua bellezza e fisicità,  un po' come Taylor Lautner, e che un conto è la bellezza serializzata del beefcake americano che è ripartita da Zac Efron ai tempi di High School Musical influenzando come un nuovo edonismo più sfacciato e sterile tutto l'immaginario adolescenziale, oggi autoreferenziale, e adulto, irrimediabilmente pseudo-giovanilistico, e un conto è la bellezza/fisicità di attori come Eastwood, Bronson, e il più recente Tom Hardy. Sono due teorie di fisicità completamente diverse. Le prime commerciali e prossime allo sgonfiamento, le seconde più intellettuali, più immaginifiche e virili tanto da restare icone immortali.
Il fatto, poi, di aver inserito, a livello narrativo, un sub-plot da robbery-movie con tanto di rapinatori psicopatici non aiuta a concentrare l’intenzione tematica e anche narrativa sul vero epicentro modulare del film: lo squalo e la sua minaccia. Sicuramente servono, e sono pure tratteggiate bene – tratteggiate, si badi, non sviluppate – le altre sottostorie del film. Nei garage del centro commerciale dove i superstiti dello tsunami sono sopravvissuti, ci sono altre due storie: quella di Ryan, la cui ragazza sta al piano di sopra con il padre poliziotto e ferito ad una gamba, e quella della coppia di due tipiche carni da macello dei film horror, il biondone figo e stupido che pensa solo a scopare incapace di pensare ad altro – il beefcake Lincoln Lewis – e la sua ragazza, bionda – anche se finta – copia sputata di Paris Hilton, con cagnetto al seguito e isterie da ragazzina ignorante il cui orizzonte culturale non va oltre le scarpe di Gucci. Ryan è un nerd che studia storia, ma che alla fine sa escogitare una via di fuga dallo squalo che infesta il garage, mentre la coppia di biondi è divertente ed esilarante, uno dei motivi di maggior intrattenimento del film. Impietosa la descrizione, seppur puerile, che si fa della coppia, ma aiuta a smorzare la tensione del film, che va detto c’è ed è ben costruita anche se resta solo un tentativo di suspance e di thrilling. Personalmente è il sub-plot che ho preferito, invece che quello della solita ragazza-interrotta, con il padre sbirro, e lei che ruba al supermercato e poi si redime, o quello principale della coppia scoppiata, Xavier Samuel-Sharni Vinson, che ritrova l’amore dopo la morte del nuovo fidanzatino di lei (sigh!), o quello della rapina con annessi e connessi. La coppia Lincoln Lewis-Cariba Heine non solo sdrammatizza e porta un pizzico di ironia gratuita in un “mare” di personaggi pseudo-tragici e patetici, ma veicola anche, o avrebbe veicolato se fosse stato sviluppato meglio il loro sub-plot, istanze sessuali e morbose che con la sfera tematica della minaccia animale, e in particolare di quella del mostro marino, loro intrappolati nella loro macchina sotto un metro cubo d’acqua, sono o sarebbero state le istanze migliori dell’intero parco tematico del film. Ma così non è, resta solo una felice parentesi all’interno di un buon film di azione e horror, a cui va il merito di mostrare la carneficina umana con dovizia di particolari e creare così uno scenario liquido e infernale pari solo alla mattanza di Piranha 3D di Alexandre Aja, così come all’originale di Joe Dante, come a quella di Killer Crocodile di Fabrizio De Angelis.
Altro punto negativo? Gli squali. Non sono fatti male con il digitale e questo è un motivo di pregio, ma vengono subito mostrati, svelati, non viene dato a loro la stessa aura malefica e ancestrale che Spielberg riuscì a dare al suo squalo di Amity. Qualche sequenza è azzeccata, qualche idea visiva pure – come la bambola che s’è attaccata alla pinna dorsale dello squalo e funge da segnalatore come la botte gialla in Jaws, aumentando la sensazione di angoscia e di orrore per qualcosa di non-conosciuto, ma nell’economia del film gli squali e i loro attacchi non sono centrali e non condizionano la trama e le psicologie dei personaggi. In più, anche se fatti bene, il digitale rovina comunque e sempre la plasticità dell’impatto visivo, che è fondamentale nei film horror come negli animal-attack movies, così come il 3D rovina la qualità dell’immagine e condiziona lo svulippo scenico.
Ultima curiosità. Gli squali sono due, uno in garage e uno al primo piano, reparto carni fresche, ed entrambi muoiono come nei primi due film della serie Jaws, ovvero i due migliori film sugli squali mai fatti. Lo squalo del primo piano muore in una fantasiosa scena action con Xavier Samuel che fa l’eroe muscolare e si tuffa in acqua con un fucile a pompa e imita Roy Scheider anche senza pronunciare la mitica “Apri la bocca, figlio di puttana!”, e se anche non è male il face/off tra umano e bestia, la scena è esagerata. Il secondo squalo invece muore per mano del prode Xavier Samuel, che con un’acrobazia degna di Tomb Rider spara, capovolto dal soffito, scariche elettriche al pesciolone, come succedeva, in maniera diversa, nel secondo Jaws.

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