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Qualcosa nell'aria

Regia di Olivier Assayas vedi scheda film

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La recensione su Qualcosa nell'aria

di spopola
8 stelle

Nel ’68 avevo 13 anni, vivevo in campagna vicino a Parigi, cercavo di capire quello che stava succedendo attraverso la radio, la televisione e quello che dicevano i miei genitori. La mia intenzione nel realizzare questo film era parlare del dopo, dell’esperienza che era stata anche la mia, di scoprire, all’inizio degli anni ’70, il mondo in movimento quando davvero tutto stava cambiando profondamente e non c’era un valore che non fosse da discutere e reinventare anche con una buona dose di ingenuità, che invece non avevano i ragazzi del ’68, più maturi e politicizzati. (Olivier Assayas)

 

In quest’ultima fatica di Assayas giustamente premiata a Venezia, si respira aria di assoluta verità, riferita a un’esperienza che si avverte “consumata” in presa diretta che narra quasi in prima persona ma con un approccio corale molto efficace che ne universalizza il senso, un percorso formativo politico e culturale di forte presa anche emotiva con cui l’autore di L’eau froide, Clean, Irma Vep e Carlos  rievoca il pot-68 delle assemblee, dei collettivi, del peregrinare alla ricerca di sé, e lo fa mettendo in scena con musiche d’epoca ed immagini appropriate, un gruppo di giovani della buona borghesia parigina alle prese con la propria progressiva maturazione in cerca del futuro.

Un’opera densa e magmatica che non cede mai alla nostalgia (e ancor meno all’oleografia) e soprattutto che non intende assolutamente dare lezioni o fare proclami, né tantomeno cercare giustificazioni, ma prova semmai a fare i conti con sincerità (ed è un atto coraggioso e in controtendenza che va assolutamente riconosciuto all’autore) con un passato che è poi anche il suo e che non può ovviamente essere disgiunto o prescindere dall’oggi, nel riportarci a un’epoca in cui c’era ancora la capacità di approcciarsi a una stagione importante della vita come quella della giovinezza, con la capacità di mettersi in gioco fino in fondo per assaporarla nella sua interezza e farla diventare “esperienziale”, pur con le contraddizioni e le cadute tipiche di quell’età piena di fermenti dottrinali e di “bollori” sessuali, ma anche con gli inevitabili errori e i rischi conseguenti, tutti accettati consapevolmente e mai rinnegati (rivalutati semmai e meglio compresi con lo sguardo affettuosamente critico delle cose rilette in prospettiva).

Rischiava (ingiustamente) di passare per una ennesima rivisitazione del ’68, e invece fin dal titolo (consentitemi di chiamarlo ancora e sempre Après mai e non Qualcosa nell’aria, come è stato invece rititolato per l’Italia) Assayas (classe 1955) dichiara e rivendica con fierezza proprio un sostanziale e differente approccio alla materia, reso possibile dalla collocazione storica del racconto in un periodo (i primi anni ’70) non lontanissimo, ma successivo, quello che appunto segue abbastanza da vicino il celeberrimo “maggio francese”. La generazione è dunque proprio quella a cui appartiene il regista, che visse appunto in diretta gli sviluppi e i contrasti di un acceso dibattito politico articolato e diviso in decine di sigle, carico di inquietudini ideologiche e di eccessi spinti fino alle estreme conseguenze, ma anche di coraggiose scoperte e di approcci non sempre in positivo (la coppia aperta, l’elaborazione di nuove forme di cultura, l’arrivo dell’eroina, l’estremismo del pensiero).

 

Après mai, dunque, ovvero dopo “il maggio” (“quel” maggio).

E  siamo subito calati nella precisa e certa collocazione temporale in cui si svolgono le vicende dei giovani protagonisti della storia, che suggerisce e stimola già da sola la giusta prospettiva dello sguardo, quella  che permette una riflessione anche valutativa degli accadimenti di quegli anni  lontani e irripetibili dei quali anche lo stesso regista si era già occupato con uno dei suoi migliori risultati artistici nel 1994, ma attraverso il quale gli sembrava di non essere riuscito a dire tutto quello che gli urgeva dentro: dopo aver fatto “L’eau froide”, avvertivo un senso di frustrazione, perché quel film proponeva una visione astratta e poetica del periodo che lasciava fuori tante dimensioni, in primo luogo la politica. Sentivo che mancava qualche cosa di fondamentale e ho quindi  provato adesso a colmare la lacuna e a riprodurre la complessità di quel dibattito, completamente perduta oggi, in un tempo di semplificazione caricaturale della politica. Tutti i personaggi sono silhouette della mia adolescenza ma Gilles, il protagonista, è sicuramente quello più vicino a me. Si trova a metà fra infanzia e maturità, sta cercando di capire se stesso, cosa vuole essere e in che direzione andare, esattamente come mi trovavo io in quegli anni. All’epoca era una scelta difficile anche decidere perché qualsiasi cosa tu volessi fare, dovevi formularlo e giustificarlo in termini ideologici. Quella generazione che è stata anche la mia non ha fatto la rivoluzione ma ha sperimentato le idee rivoluzionarie, anche le più assurde ed ha pagato lo scotto delle proprie azioni nel bene e nel male. In queste affermazioni del regista credo che possa davvero essere racchiuso – e spiegato come meglio non sarebbe stato possibile fare - il senso profondo della sua rivisitazione meditata, e per più di una ragione profondamente articolata, e la necessità primaria di porre in primo piano il recupero di una consapevolezza e di un rapporto con gli avvenimenti che illumina il racconto fino quasi a farlo diventare epico, ma che è tutt’altro che un tentativo di prenderne la distanza o raffreddarne la materia perché (e i riferimenti anagrafici sono fondamentali) per il regista tutto accade  “dopo maggio” ed è per lui incontestabile che se l’epifenomeno della contestazione studentesca parigina (già descritta con nostalgica partecipazione cinefila come “la perdita dell’innocenza” da Bertolucci nel suo The Dreamers e riproposta con uno sguardo più cinicamente critico, quotidiano, antieroico e rassegnato da Philippe Garrel con Les amants régulières) riguarda i fatti del 1968, i suoi effetti sulla società si sono sentiti di più negli anni successivi, un lasso di tempo abbastanza breve se vogliamo, ma dentro al quale è racchiusa interamente la dimensione di un fenomeno che dopo aver raggiunto il suo apice, ha inesorabilmente imboccato la sua fase discendente, anche se in quel periodo ribolliva ancora di una vitale e disordinata energia propulsiva che adesso - messi come siamo- ci rimane persino difficile immaginare e che dovremmo invece per lo meno invidiare. 

Après mai forse non potrà essere considerato “dentro la storia”, ma prova comunque a costeggiarla molto da vicino, e riesce proprio per questo a “sbirciarla” e a riproporcela con uno sguardo laterale molto personale che meglio consente al regista di raccontarla e rispettarla per quello che è stata veramente. Il risultato è davvero di straordinaria rilevanza perché il film è narrato ed esposto con una tale passione e un’onestà di fondo persino sottilmente ironica, che riescono a mettere completamente a nudo una generazione e le sue illusioni. Quel che più colpisce e affascina infatti è proprio la sua voglia di restituirci in toto la fiera – ma non spavalda – concezione di un’idea di vita, di società e di mondo magari discutibile (ma che era capace di creare dibattito nel suo non avere certezze consolidate e che provava a sostenere la lotta anche di classe quale elemento propulsore per cercare di trovare nuovi sbocchi aperti alla speranza di un domani migliore tutto da conquistare), rappresentata con lo sguardo  “innocente” di una giovinezza che induce(va) ad osare, il tutto osservato comunque da una prospettiva  che è certamente contemporanea, ma che si sviluppa nella riproduzione di un cammino e un viaggio ormai definitivamente compiuto nel suo divenire (quello del regista), letto però come “passato”, e proprio per questo, in grado di diventare pura materia narrativa nel suo farsi “racconto” e non semplice diario.

 

Siamo dunque a Parigi, nei primi anni ’70, e l’inizio del film ci proietta subito dentro al clima particolarmente infuocato e battagliero di quel periodo con la polizia che carica gli studenti che manifestano in strada per protestare contro il ferimento di un loro compagno. Assistiamo così alla brutalità reazionaria dei manganelli che disperdono il corteo con i ragazzi che riescono a rifugiarsi nelle scale di un palazzo e a sfuggire così alla cattura. Il clima rivoluzionario (quello dei ciclostili, per intenderci) è diffuso e fortemente condiviso pur nel conflitto esistente fra il mondo studentesco e gli operai: si parla continuamente di un evento importante che tutti aspettano e che si è certi che non mancherà di arrivare al più presto, ma che non giunge mai.

Un gruppo di amici dunque, ognuno dei quali rappresentativo dello spirito che animava quel vitalissimo periodo con tutte le differenti sfaccettature del momento, con al centro il personaggio chiave di Gilles (controfigura evidente di un giovanissimo Assayas) che discetta e filosofeggia con gli amici proprio sui metodi con si dovrebbe preparare, organizzare e perseguire la rivoluzione che tutti insieme tentano già di mettere in pratica trasformando le loro idee in piccole azioni  dimostrative.

Sarà durante una di queste azioni che un agente di sicurezza rimarrà gravemente ferito, un fatto non secondario che metterà i ragazzi di fronte alle reali conseguenze della violenza e che li costringerà a ripensare seriamente le loro posizioni e i loro convincimenti. In particolare, sarà proprio Gilles, che fra tutti è forse davvero il meno programmaticamente ortodosso, quello che più degli altri si interrogherà sul senso più profondo dei miti politici di quegli anni (rivoluzione cinese in testa), una costante riflessione elaborata del pensiero che lo porterà a confrontarsi anche con il suo sentire più profondo che riguarda la sfera dei sentimenti, e ad intraprendere poi in modo più deciso e funzionale, un percorso di crescita interiore non irto di difficoltà, che lo aiuterà però a capire chi è, che cosa sente veramente, e soprattutto che cosa intende raggiungere nella vita.

Durante il viaggio (che il gruppo compie per la necessità di far perdere le proprie tracce e non incorrere in sanzioni penali) prima in Italia (c’è anche una bella parentesi sulle tracce dei collettivi del Nuovo Pignone ambientata a Firenze che si snoda fra proiezioni di pellicole rivoluzionarie nei vicoli all’aperto e accese discussioni tra Ponte Vecchio e Piazza S. Trinita) e poi ancora oltre per qualcuno di loro, fino alla meta agognata del lontano Nepal in estremo Oriente, c’è evidente la voglia non solo di fuggire dalle proprie responsabilità, ma anche il desiderio di ripercorrere in quell’itinerario “avventuroso”, le orme di illustri viaggiatori del passato per mescolarle con le suggestioni e gli incontri del loro presente rivoluzionario. Un’esperienza formativa comunque che permetterà a ciascuno di loro di scegliere e intraprendere la propria strada e di seguire il proprio destino, abbandonando non senza difficoltà, anche l’ombrello certamente soffocante, ma molto protettivo, dell’ideologia. Un tragitto di maturazione nel quale Gilles si confermerà più concreto e realista di tanti suoi amici che finiranno invece per perdersi, e deciderà di mettere da parte almeno per qualche tempo, le tante illusioni e i sogni impossibili, accettando un lavoro che non risulterà poi essere – almeno nell’immediato – esattamente come si sarebbe aspettato che fosse, ma che di fatto lo proietterà nel suo futuro.

 

Il viaggio a ritroso di Gilles, la sua discesa in un tempo privato e insieme collettivo, attraversa dunque molto liberamente, come già accennato prima, l’autobiografia del regista (l’adolescenza, i primi turbamenti sessuali, la militanza nell’estrema sinistra, gli scontri con la polizia, la passione per la pittura, i dubbi sull’ideologia maoista, un amore o forse due, se vogliamo essere un tantino più precisi, il problema dell’aborto, i viaggi, i ritorni, i fallimenti, e poi finalmente il cinema, con la scoperta di Debord, del situazionismo e di tutto quello che sarebbe venuto dopo nella sua vita: la critica, la regia e il modo personale di intendere il racconto cinematografico).

A far da guida a questa crescita, contribuirà un insieme crescente di arte, di musica, di film e di letture, ingurgitato con una tale avidità di conoscenza, da suscitare nello spettatore un senso di stupefatto e profondo rimpianto (davvero molto forte e sentito) per quella giovanile curiosità che divorava e assorbiva tutto, compresa la cultura emergente di quei borghesi rivoluzionari “figli di papà” e non, tipica dell’epoca, per rielaborarla in nuove formule con una creatività oggi impensabile: rispetto a come siamo messi ai giorni nostri, chi non ha vissuto in diretta quel momento, può rimanere probabilmente più che ammirato, sconcertato, tanto lo troverà distante dall’oggi, un “disagio” avvertito anche dal regista che ha detto al riguardo: per il film ho scritto dei dialoghi usando il linguaggio politico del tempo per dargli maggiormente il senso della verità ma ho avuto molte difficoltà a farli assimilare ai miei giovani interpreti che non li capivano e non riuscivano a ripeterli, come se si trattasse di un’altra lingua a loro sconosciuta e se per loro fosse quasi impossibile riconoscersi non solo nella bulimia politica, ma anche in tutto il resto.

Se i suoi personaggi leggono, dipingono, disegnano, fanno cinema o ne parlano, si drogano o viaggiano, se provano insomma a vivere secondo un ideale di libertà tipicamente rivoluzionario e propositivo, non è dunque per una moda passeggera o qualche atteggiamento emulativo, ma per una differente concezione della vita che emerge chiaramente dalla pellicola, un qualcosa insomma che non riguarda semplicemente il piacere e il divertimento che fare tutto questo può procurare soprattutto in gioventù, ma attiene a qualcosa di più profondo e meditato, una necessità sentita e radicata di conoscenza dalla quale era impossibile prescindere, un bisogno di considerare possibile anche una conclusione estrema delle cose, con una concezione del”rischio” che richiedeva impegno, coraggio, dedizione e voglia di osare anche a costo di sbagliare o di essere costretti ad abbandonare per la strada qualche amore importante. Un “compito” da assolvere insomma (quasi una missione) attraverso scelte cruciali fatte soprattutto per se stessi, prima ancora che per la rivoluzione vera e propria, davvero ben oltre l’ideologia e la politica, dunque, così da riuscire ad assorbire fino in fondo ciò che di interessante, di giusto e di buono può scaturire da un’epoca (ogni epoca) e che si può percepire solo se se ha il coraggio di mettersi in discussione (e  che se si fa, può diventare un bagaglio essenziale di crescita personale non indifferente).

E’ forse per questo che rispetto allo sguardo molto più amaro del magnifico L’eau froide  pieno di rabbia e di dolore rappreso (gli calza davvero a pennello la frase di Paul Nizanc avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della mia vita affibbiatagli giustamente come epigrafe dal Morandini), la sua ultima opera può risultare meno estrema, anche se ugualmente piena di cuore e di “cervello pensante”: sicuramente è meno sperimentale nel linguaggio, realizzata com’è con una forma più lineare e didascalica necessaria per costruire costruisce un racconto composito e controllato davvero efficace come questo (“perfetto”, mi verrebbe da dire) nell’includere ed evidenziare tutti gli umori e le idee dell’epoca presa in considerazione, che si conferma il frutto di una maturità stilistica ed espressiva (Assayas sembra aver trovato molto giovamento proprio dalla importante esperienza fatta con Carlos che lo la indotto a lavorare adeguandosi a un formato televisivo che necessita di stilemi narrativi più diretti e meno emotivi, e che proprio in ragione di ciò, richiedono anche maggior cura e precisione nel trovare una “forma” adeguata, una parentesi a mio avviso davvero “seminale” che lo ha fatto crescere molto in padronanza narrativa  e in chiarezza esplicativa).

Assayas è stato aiutato in questa bellissima impresa, da una perfetta ambientazione anche visiva (ottima la fotografia di Eric Gautier), che è stata supportata al meglio nel lavoro ricostruttivo di un clima e di periodo così specifico e connotato, proprio dalla grossa mole di materiale originale (fra cui volantini e giornali) che lui stesso aveva conservato e dei quali  ha potuto disporre a piacimento, che costituisce l’efficacissimo corredo scenografico della messa in scena, esattamente come riesce a farlo la musica –  che è poi quella realmente ascolta dal regista adolescente – che  rappresenta di fatto, l’altrettanto importantissimo complemento di una necessaria “verità” anche acustica.

La lucidità con cui il regista giudica la propria esperienza è insomma la stessa con cui, in modo probabilmente sofferto ma forse necessario, prova a distanziarsi come modalità di rappresentazione, dal cinema realizzato in precedenza, nel cercare e trovare una giusta  distanza di sguardo capace di farci pienamente apprezzare persino il travaglio interiore e lo sforzo compiuto nel restituirci la complessità del tempo passato, con le sue durate e le sue distanze, tralasciando (o meglio lasciando soltanto intravedere in secondo piano) i prioritari legami personali così profondamente presenti, proprio a cominciare dalla scelta di non concentrarsi soltanto su Gilles, ma su un gruppo di personaggi (nel quale anche lui è inglobato), che non fanno parte però del solito e corale affresco polifonico a più voci, in quanto a loro volta “protagonisti” (ciascuno con il proprio strumento ed i propri “assoli”) di un mondo reale anche se lontano e in cui ognuno ha compiuto un cammino autonomo che lo ha fatto incrociare a un certo punto con quello degli altri. Ed è per questo che lo sguardo risulta così tenero e penetrante al tempo stesso, davvero efficacissimo e mille miglia lontano come si è visto, da quella che si potrebbe definire “la nostalgia del reduce”, anche se pieno di  una analoga partecipazione, che fa sì che il lascito culturale (che risulta evidente e che è proprio ciò di cui difettiamo adesso), l’eredità più importante e che ci commuove maggiormente, è il fortissimo senso di “futuro” che quei giovani avevano, insieme all’entusiasmo e alla malinconia  di “questo dopo maggio” di una generazione che pur avendo  lasciando dietro di sé molte vittime (anche per colpa dell’eroina) ha davvero avuto il coraggio di mettersi in gioco, di rischiare, e che ha permesso poi ai “superstiti” di  fare altrettante adeguate scelte, compreso quelle di entrare nelle professioni intellettuali più normalizzate, portando dentro di sé un po’ di quella rivoluzione che non è mai arrivata (Barbara Corsi): nel finale troviamo infatti il nostro Gilles alle prese con le prime esperienze lavorative dentro produzioni di serie B di quella che sarà poi la  straordinaria carriera professionale fuori dagli schemi del futuro Olivier Assayas (Nelle interviste post proiezione mi viene chiesto spesso se esiste davvero il film su alieni e nazisti che si vede nel finale: non è esattamente così per quel che mi riguarda, ma quasi poiché la scena è ispirata alla mia esperienza sul set di un film di Kevin Condor, “The Land the Time Forgot”. Per imparare il mestiere, durante le vacanze estive andavo a lavorare in studi inglesi o americani, dove rivestivo ruoli molto secondari come il quinto montatore o cose del genere. Mi trovavo a Pinewood quando stavano girando “Superman”, ma io ero impegnato in un film di fantascienza stile anni ’50. Lo ricordo con affetto perché penso che la cultura popolare sia essenziale anche nel cinema. In fatto di cinema ho gusti molto ecumenici, mi piace tutto).

Molto importante anche l’aderenza fisiognomica dei giovani attori quasi tutti esordienti, scelti per interpretare i personaggi della storia: (il casting è stato un processo lungo e complicato, poiché non cercavo degli attori, bensì degli individui che avessero una certa personalità. Il casting è stato un processo lungo e complicato, abbiamo cercato i ragazzi all’uscita delle scuole, su Facebook, nei luoghi di ritrovo. Poi ne ho incontrati 150, quelli che mi sembravano si avvicinassero di più alla fisicità e allo spirito del film. Come provini non davo delle scene da recitare ma facevo con ognuno lunghe conversazioni su vari argomenti. Ho imparato molte cose sulla generazione attuale, sul modo di reagire alla politica, alla comunicazione, alla musica). Un cast molto efficace che annovera talenti emergenti come Lola Créton (Un amore di gioventù) e “sconosciuti” di grande spontaneità e carisma, come Clément Métayler (Gilles), Carole Combes e Felix Armand.

 

Concludo, facendo mie le parole utilizzate in apertura del suo pezzo da Roberto Manassero su Cineforum:  Fare i conti con il passato, quando una stagione della vita è accettata nella sua interezza, è un atto importante e coraggioso. Giusto perché come frase ci suona bene, ci piace pensare allora che il passato sia una terra straniera (un po’ come il paese che non è mai per vecchi), ma in realtà, dovunque lo si prenda e lo si osservi, per la nostra epoca il passato è una terra conosciuta, esplorata  e continuamente presente.

 

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