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Django Unchained

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su Django Unchained

di Utente rimosso (SillyWalter)
6 stelle

Tarantino, invece di innalzare l'eroe, cerca di farlo sembrare più alto abbassando i suoi nemici

 

 

       Rivedo DJANGO UNCHAINED e ne ricavo la stessa sensazione di quando lo vidi al cinema. Django è PICCOLO. Un eroe piccolo piccolo. Non mi colpisce. Non lievita. Cosa strana trattandosi di Tarantino, capace altrove di dare statura grandiosa a personaggi assurdi, a rifiuti del sottobosco pulp, a patchwork di materiali di scarto. Vale la pena cercare di capire di cosa è fatto Django e di cosa è fatta la mia "sensazione".

        Certo da Tarantino si aspettano (e si pretendono) alchimismi, citazioni e destrutturazioni, ma soprattutto si aspettano ristrutturazioni e riletture (il genio ruba, non copia). Quindi non stupisce l'inserimento di materiali eterogenei in questo "western". Quel che stupisce è che non facciano grande il personaggio di Django. Come se non coagulassero. 

 

SCUSI, DOV'È IL WEST?         

        Il West. Siamo poi sicuri di poterlo chiamare western? Poche scene sono ambientate nelle classiche cittadine polverose o fangose tagliate dalla "main street", poi andando a memoria scorrono boschi, praterie, montagne innevate e quindi si va a sud ("going south"). Le piantagioni, le magioni e le proprietà di Big Daddy e monsieur Candie occupano tutta la seconda parte, facendone un film più southern che western. Doveroso, si dirà. Django vuole la sua Broomhilda (e la sua vendetta) e non teme di andarsela a prendere nella tana del drago. Il coraggio ti fa grande. Ma non è la grandezza dell'eroe del West.  

 

 

A CAVALLO DELL'EPICA        

        Nel western classico e nel western moderno (Leone compreso) l'eroe è emblema e campione di un mondo. Quindi è grande in partenza, è a capo di un "esercito". Nel primo caso è l'integerrimo portatore di civiltà contro i "selvaggi" indiani come contro le prevaricazioni di proprierari terrieri e criminali rintanati in terre che sembrano appartenere a loro perchè sono come loro, fuori-legge. Con varie sfumature l'eroe diverrà col tempo sempre meno idealizzato e romantico e dovrà combattere o venire a patti anche con quanto di selvaggio c'è in lui. Giù fino al western moderno, dove l'eroe è più smaliziato e furbo, il migliore ad usare mezzi leciti e illeciti senza ipocrisie riguardo alla natura umana, il rapporto col denaro, l'inganno (se sarà "buono" lo sarà alla Leone, per quanto si può esserlo in un mondo selvaggio.). È fatto dell'impasto della terra di confine, la domina anche perchè la conosce e sa adattarsi. Anche se la spinta propulsiva della conquista e della moralizzazione si è esaurita nell'eroe, lui è dalla parte giusta quindi aiuta comunque tale spinta. Riconosciamo in lui l'eroe per un nuovo West, più infido e violento.

         Di cosa è campione Django? Rappresenta i valori di noi spettatori di oggi (è sperabile), ma nel film è campione di pochi (neanche tutti i neri sono dalla sua...). Il film lo lascia vincente ma tutt'altro che dominatore del suo mondo.

         Nel western siamo sempre sulla cresta dell'epica, viaggiamo con la storia della conquista del West. Siamo nella terra di confine dove la leggenda diventa fatto (print the legend). In quest'ombra ci possono stare sia un western romantico che uno realistico o violento, consentono entrambi la famosa sospensione dell'incredulità. Anche Django ha un'importante rivoluzione storico-sociale come sfondo. Ma non è su nessuna cresta e resta piccolo. Django potrebbe portare civiltà, perchè la sua battaglia è etica, ma non ha la Storia alle spalle. Non è una leggenda nè un prodromo della liberazione degli schiavi, che dovrà essere imposta dall'alto (anche se il film prova significativamente a collocarlo alle porte dell'abolizione della schiavitù). E d'altronde la sua "quest" è dichiaratamente privata: liberare Broomhilda. Django non cavalca l'epica. Si scontra con la Storia, invece di inserirsi in una sua zona d'ombra.

          Forse la lettura che lo fa più "grande" è quella simbolica. Django come tutti gli schiavi dopo di lui trova la libertà per meriti altrui, attraverso un processo formativo scoprirà le sue doti (forza e intelletto), ma per estirpare il razzismo dovrà prendersi la scena, guidare la sua battaglia in prima persona. Il cammino verso una società civile rivisto dal punto di vista afroamericano. Ma è una deviazione che resta grande e significativa solo finché resta idea. Nella pratica comporta molti sacrifici. Nella carne filmica dare via il west per il south significa perdere il supporto amplificativo della tradizione e dell'universo mitopoietico del western (senza tradizione lo spettatore non ti aiuterà a mettere l'eroe nella giusta cornice, a portarlo all'altezza dei suoi predecessori), significa perdere la presenza della lotta contro l'ignoto e il selvaggio della frontiera e i suoi riverberi sull'animo umano, significa perdere la possibilità di fare l'inevitabile cursus honorum dei pistoleri (anche solo essere la pistola più veloce del West ha tutto un altro significato di essere "la pistola più veloce del Sud..."). Vuol dire perdere la possibilità di stare sulle spalle dei giganti della tradizione ed essere leggenda in una terra mitica e ambita. Il western è rigido, strettamente codificato, se vuoi "quella gloria" (quella grandezza) devi giocare con le sue regole, sul suo campo.

           Tra parentesi: paradossalmente un Django vittorioso e privo di catene sarebbe forse sembrato più libero in una terra di confine. Sia per via dell'ambiente "aperto" (terra delle possibilità) e per via della natura/società da plasmare a piacimento, sia perché la legge del (pistolero) più forte gli avrebbe dato immediata cittadinanza una volta sconfitti i giusti avversari. Inoltre, per quanto il filone e gli ambienti del wetern classico siano storicamente e cinematograficamente bianchissimi, le istanze morali della battaglia di Django a mio parere si sarebbero accordate egregiamente con l'etica senza macchia dell'eroe romantico. E la zona d'ombra delle leggende avrebbe fatto il resto (d'altra parte non fatichiamo ad accettare Kevin Costner come indiano adottivo).   

 

 

LO SCORONAMENTO DEL NEMICO        

        Diamo un occhio a un altro importante elemento dell'epica (classica e western), l'antagonista. Monsieur Candie è quello che più ci dà l'idea di un "villain" degno di essere sfidato. Ma, oltre ad essere a volte meno sveglio del suo maggiordomo e a limitarsi a punire l'inganno dei suoi ospiti con una multa (!?!) e molte chiacchiere, è anche il primo a cadere nel clangore delle armi (e neanche per mano di Django). E aggiungerei un particolare: Di Caprio, a prescindere dalle capacità, è da principio una scelta che rimpicciolisce il personaggio del grande proprietario terriero. Ci fanno sapere che Candieland ha una tradizione (attraverso le storie degli avi e dei maggiordomi), ci viene urlato che Candieland (e quello che rappresenta) esisterà sempre, e poi a incarnare questa vastità spazio-temporale ritroviamo un giovane uomo, che la nostra memoria affianca a più imponenti, tonanti e stagionati inerpreti dello stesso ruolo... E quindi? Quindi è una regola piuttosto elementare (anche nell'epica supereroica): la grandezza del nemico sconfitto fa la grandezza dell'eroe. E la quantità non può sostituire la qualità. I nemici uccisi a frotte non hanno identità nè carisma. Sono carne da cannone. Quel che vogliamo è guardare negli occhi il male incarnato. E opporgli un bene incarnato. (Con tutto il corollario: Doppio. Simbolo. Dualità dell'essere. Etc.)

         Gli elementi comico/parodici hanno anch'essi a che fare sia col tema dell'antagonista che con quello della cornice ambientale. Semplificando: siamo sicuri che questo Django non finisca per svettare su nemici ridicoli(zzati) in una tragedia da operetta? È un aspetto che hanno sottolineato in molti con vari accenti di gravità. Alcuni critici hanno fatto notare come gli aspetti parodici sommati alla spettacolarizzazione iperbolica della violenza (tutti quei sacchettini di sangue che scoppiano a ripetizione...) e al consueto,"atonale" (perchè ondivago) gioco postmoderno, disinneschino la statura tragica del motivo schiavista e il significato eversivo del cowboy nero. Gli accenti più forti sono arrivati da Spike Lee, che ha giudicato il film irrispettoso della storia e della sofferenza dei suoi antenati (curiosamente proprio S.Lee veniva dall'aver subito un'accusa simile per MIRACOLO A SANT'ANNA). Forse Spike avrebbe voluto un dramma di stampo documentaristico. E forse i succitati critici si sarebbero accontentati di più "misura". In fondo Leone insegna che nell'epica c'è spazio anche per comicità e iperrealismo.

          È paradossale (ma paradossalmente indicativo della sua buonafede) che Tarantino sembri arrestare lo sviluppo (arrested development...) del suo eroe quasi per un eccesso di favore e coinvolgimento. Proprio come una madre iperprotettiva gli spiana fin troppo la strada combattendo le sue battaglie. Esempio: la parodia del Ku Klux Klan. Un'intera orda di idioti ridicolizzati dal loro Creatore all'acme della tensione. Lo meritano. Fa ridere. E attraverso la risata colpiamo i bersagli della vendetta di Django. Ci uniamo alla sua causa. Ma...ma ancora una volta a conti fatti forse perdiamo più di quanto guadagnamo.  

 

 

"QUESTO È UN LAVORO PER SUPERMAN "...diceva il più compendiario degli eroi. E il KKK è un lavoro per Django. È la sua impresa, il suo nemico. Quentin glielo sottrae, lo ridicolizza, e così facendo gli toglie gravità e forza di suggestione, prima che Schultz (non Django, di nuovo) lo spazzi via con la dinamite. Ecco altri antagonisti che non daranno gloria all'eroe. Anzi, ecco un'altra folla nemica da cui non esce alcun antagonista. Oltre a ciò, resta come sospeso angosciosamente a mezz'aria il dubbio che non si possa tirare in ballo il KKK e regolarlo così in fretta. Anche qui c'è una "tradizione," ma colossalmente negativa. Una storia di odio profondo, radicato, che arriva fino ai giorni nostri (per questo forse ne poteva uscire una impresa degna, un antagonista di spessore capace di far grande Django). Questa comparsata non rende le proporzioni quantitative e qualitative della minaccia o della "potenziale fucina di nemici". Come Di Caprio non rende le proporzioni del latifondismo schiavista. Attraverso l'inadeguatezza di questi due nemici crolla l'intero sfondo di minaccia. Django ha vinto una battaglia, non la guerra, e oltrettutto contro nemici di retroguardia.

         Per altro anche altrove i due protagonisti si trovano ad affrontare avversari razzisti e ignoranti messi prontamente in ridicolo: i mercanti di schiavi ("Parla cristiano!"); gli scagnozzi di Candie che parlano a grugniti; e anche di Candie (che già di suo non svetta) si sottolinea che vuol essere chiamato monsieur ma non sa una parola di francese. E non conosce Dumas. Sembra quasi una strategia. Verrebbe da pensare che Tarantino, invece di innalzare l'eroe, cerchi di farlo sembrare più alto dedicandosi ad abbassare i suoi nemici. Ma così facendo Django si batterà contro avversari in miniatura. Si inginocchierà per stare al loro livello e sul campo di battaglia sembrerà più basso del più basso dei Dalton. Lo scoronamento del nemico darà luogo a un involontario scoronamento dell'eroe. Tutto torna. 

 

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