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Lincoln

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su Lincoln

di giammaz
7 stelle

Un film ambivalente. Pienamente convincente nell’interpretazione storica di Lincoln (uno straordinario Daniel Day-Lewis) e nel ricostruire dibattito e azione politica che hanno portato alla approvazione del XIII emendamento (abolizione schiavitù), ma che si dilunga inutilmente e con scarsa efficacia sulle relazioni di Lincoln con moglie e figli.

Premetto che ho visto il film tramite DVD e, grazie anche ai contenuti speciali, mi pare da confermare, al di là del numero spropositato di premi e di nomination ricevuti in patria, il giudizio ambivalente dato da molti. Con alcuni punti deboli e, tutto sommato, una prevalenza di punti di forza.

 

Mi spiego. Nell’intervista l’autrice (Doris Kearns Goodwin) del libro da cui Tony Kushner ha tratto la sceneggiatura(Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln) spiega bene le caratteristiche del suo lavoro. Aveva voluto ritrarre Lincoln al di là del mito indagandone la personalità sul piano umano nei rapporti con le persone a lui più vicine, a partire dai familiari. Ma, sottolinea l’autrice, si rese presto conto che Abramo Lincoln passava infinitamente più tempo con i suoi collaboratori e ministri che con la sua famiglia. E visto che questi collaboratori hanno lasciato dettagliati diari e numerose impressioni personali sulla figura del Presidente è stato possibile farne un ritratto originale e approfondito sul piano politico più di quanto potesse emergere sui suoi rapporti con moglie e figli.

 

Quando Spielberg seppe del lavoro della Goodwin, prima ancora che fosse ultimato, ne chiese l’esclusiva perché da tempo aveva in mente un progetto sul presidente che aveva abolito la schiavitù. Non appena ebbe in mano il dattiloscritto (oltre 700 pagine) si rese conto che doveva fare una scelta e subito intuì che questa doveva concentrarsi sugli ultimi quattro mesi di vita e sulla battaglia abolizionista (il XIII emendamento della Costituzione) che corrispondono anche al periodo conclusivo della guerra civile.

E qui sorge appunto la domanda: perché insistere anche sui rapporti familiari con la moglie e i figli. Non aggiungono niente sulla figura del Presidente; su questo fronte la sceneggiatura è fragile, i conflitti non dicono nulla di particolarmente interessante e i personaggi sono delineati in modo superficiale, senza spessore psicologico; il conflitto padre figlio è stato tematizzato con ben altra intensità ad esempio da Elia Kazan ne La valle dell’Eden. Per non parlare delle interpretazioni sia del figlio maggiore che della moglie a dir poco imbarazzanti. Sally Field, che interpreta la moglie, più che alla recitazione sembra concentrata a indossare i bellissimi vestiti preparati da una attenta scenografia (scenografia molto curata, ma talvolta sin troppo ricercata nei dettagli; comunque l’oscar vinto dagli scenografi ci poteva stare). Il siparietto in calesse con la moglie, collocato tra la fine della guerra civile e la morte violenta, dove i coniugi parlano di un possibile viaggio a Gerusalemme, ad esempio, poteva benissimo esser tralasciato: non aggiunge nulla e spezza in modo incongruo l’intensità della narrazione.

 

E veniamo ai punti di forza. Innanzitutto la magistrale interpretazione di Daniel Day-Lewis (in questo caso un Oscar pienamente meritato): grazie anche alla sceneggiatura ci rende l’immagine di un uomo politico complesso, travagliato, melanconico e ironico al tempo stesso. Oratore sintetico ed efficace, dalla grande capacità di ascolto (a partire dai più umili) e in grado di valutare alla perfezione le persone che ha davanti. Idealista convinto e nello stesso tempo, pur di raggiungere il suo obiettivo, capace della più scaltra realpolitik. Capisce al volo se il rappresentante del Congresso che ha davanti va convinto con argomenti etici e/o politici oppure serva maggiormente acconsentire alle sue aspirazioni personali. E nei momenti più impensati, ad esempio nel mezzo di un acceso dibattito politico con i suoi collaboratori, o prima di prendere una decisione, capace di prendere le distanze con ironia per dar voce ad uno dei suoi racconti, delle sue storielle (che tanto irritavano i suoi collaboratori). In sostanza un uomo complesso e profondo, in grado di prendere decisioni tragiche, come quella di posporre l’incontro con i delegati del sud mandati a trattare la fine della guerra, pur di realizzare l’obiettivo principale. In gioco non era solo la centralità del principio di eguaglianza, ma la natura che la Nazione avrebbe assunto dopo la guerra civile.

E le figure che lo accompagnano nella sua impresa politica sono credibili e ben delineate, a partire dal Segretario di Stato William Seward (interpretato in modo dignitoso da David Strathairn).

E veniamo all’altro aspetto che mi ha convito e, direi, anche appassionato: la battaglia al Congresso per il XIII emendamento. I dibattiti e gli scontri sono decisamente ben costruiti grazie ad interpretazioni credibili tra cui spicca la figura di Thaddeus Stevens, il deputato abolizionista, originario del Vermont, interpretato in modo magistrale da Tommy Lee Jones. I suoi duelli oratori sono memorabili come la sua capacità di mettere a freno la sua pulsionalità egualitaria ed antirazzista per metterla al servizio dell’obiettivo condiviso con Lincoln di allargare il fronte dei sostenitori e mettere alle corde i rappresentanti avversi. A mio parere se queste sequenze incentrate sul dibattito alla camera, che si concludono con una approvazione dell’emendamento sul filo del rasoio, avessero trovato più spazio (a scapito magari dell’inutile vicenda del figlio maggiore e di molte sequenze con la moglie) il film nel suo complesso ne avrebbe guadagnato in unitarietà e profondità.

Certo molti lo criticano perché troppo “documentario”; io penso che proprio l’interpretazione storica sia della figura di Lincoln che del passaggio epocale della abolizione della schiavitù con il XIII emendamento sia la dimensione più convincente del film. Un film storico (ovviamente in “storia” si parla di interpretazioni, sempre passibili di revisioni e contestazioni: i fatti, la cronaca qui è puntuale ma siamo appunto di fronte a “una” interpretazione) un film storico dicevo in grado di dare un quadro efficace di un momento cruciale della storia statunitense. La sua debolezza sta proprio nel non voler essere appieno tale, nel cimentarsi nelle dinamiche padre/figli e marito/moglie in modo superficiale, senza alcuna profondità psicologica, e spezzando l’unitarietà.

 

E comunque, come ogni buona narrazione e interpretazione storica, in grado non solo di ricostruire il passato ma passibile di insegnamenti e riflessioni contemporanee. Ne butto lì qualcuna di quelle che mi son venute in mente durante e dopo la visione.

La complessità: il tema della schiavitù e della guerra civile, dell’emancipazione introdotta inizialmente per proclama da Lincoln (giustificata anche come necessità militare) ma proprio per questo in modo non irreversibile alla fine della guerra. Doveva diventare un dettato costituzionale e in quanto tale non più modificabile … a costo di rendere più difficile la pace con gli stati secessionisti. Un intrico drammatico e difficilmente districabile: solo una figura di alto livello, complessa e profonda come Lincoln era in grado di dipanarla. Oggi come oggi molti pensano che di fronte alla complessità servano soprattutto le scorciatoie, le semplificazioni, gli uomini dal cinguettio twitter facile … col risultato che le situazioni complesse si aggrovigliano sempre di più. Una grande nostalgia di personalità politiche di quel livello che oggi sembrano scomparse.

La guerra civile: oltre alla sua intrinseca drammaticità non è una guerra fra Stati e questo rende impossibile un trattato di pace, una mediazione. Può terminare solo con la sconfitta e resa definitiva di una delle parti. Lincoln ne è consapevole, nel film lo spiega ai delegati sudisti che pensavano di esser venuti per trattare: non vi può esser trattativa ma solo la resa. E questo rende il vincitore pieno e unico responsabile del dopo, di una difficile ma necessaria riconquistata unità dello Stato e una ancor più difficile riconciliazione. Possiamo pensare agli errori e alle fratture del nostro ultimo dopoguerra o all’opposto della capacità di un Mandela di unire un paese dopo la vittoria sull’apartheid. E ancora pensare alle guerre di oggi, le cosiddette guerre asimmetriche che se non sono definibili come guerre civili, hanno comunque la caratteristica di vedere da una parte degli Stati e dall’altra un nemico senza statualità definita e pertanto un nemico “con cui non si può trattare”. Con il rischio di impantanarsi in grovigli da cui non si sa più come uscirne.

Infine un particolare, che conoscevo, ma che mi ha comunque colpito. La storia (anche quella più recente) è fatta di rovesciamenti e bisogna stare attenti ad usare le parole nel loro contesto. Nello specifico vedere che i più strenui difensori dell’abolizionismo fossero esponenti del Partito Repubblicano e viceversa i principali sostenitori della schiavitù di quello Democratico. Letto con gli occhi della politica statunitense attuale crea un certo effetto di straniamento. Ma la storia è piena di simili ribaltamenti. Per non ridursi alla cronaca non entusiasmante dei nostri giorni, ricordo la vicenda dei missionari gesuiti in America latina, che da Ordine religioso in Europa affiancato al potere e ai potenti, nell’altro mondo divenne sostenitore dei diritti e della cultura dei nativi oppressi (il film Mission ce lo ha ben ricordato) e viceversa i Francescani che nelle colonie portoghesi (dimentichi del loro fondatore) divennero sostenitori dei conquistadores e degli stati coloniali. Insomma i bei dibattiti al Congresso rappresenti dal film di Spielberg mi hanno ricordato che bisogna diffidare dalle parole, dalle etichette, dai nomi perché il loro significato cambia (e talvolta si rovescia) e che necessita sempre guardare al di là, a cosa realmente c’è dietro.

 

Per concludere, se un film riesce a far pensare vuol dire che tutto sommato non è un brutto film.

 

Voto 7.

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