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Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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La recensione su Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore

di LorCio
8 stelle

Chi non ha mai avuto a che fare con il cinema di Wes Anderson resterà certamente stupito dalla grazia e dall’eleganza di un film come Moonrise Kingdom, settimo lungometraggio di uno dei più importanti registi americani emersi nel corso dello scorso decennio. Chi scrive reputa I Tenenbaum un assoluto capolavoro della commedia contemporanea, capace di reinventare un genere attraverso la desacralizzazione sarcastica dello stile di vita americano, la creazione di un microcosmo che attinge all’assurdo estremizzando elementi più che seri e veritieri, un’estetica personale che tiene conto di arti visive statiche come la fotografia e il disegno, e un tocco tutto particolare in cui s’incontrano il buffo e l’amaro, il folle e l’analitico.

 

Detto questo, i neofiti ameranno o odieranno (penso senza sfumature) le atmosfere e le situazioni del film di Anderson. Chi già ha masticato parecchio della sua opera probabilmente troverà una conferma (in positivo o in negativo, perché in Moonrise Kingdom è attualmente la summa del cinema di Anderson) e sarà attraversato da un dubbio: che sia maniera? Che sia semplicemente un formidabile esercizio di stile manierista che ripete stilemi e fortune dei precedenti film di Anderson? Che alla tenera età di quarantatre anni Anderson abbia già codificato se stesso, una sorta di autoincasellamento in una determinata categoria autoriale? Molti registi emersi negli ultimi vent’anni sono coinvolti in questo curioso ritorno alla maniera, come se la ricerca di una nuova linfa all’interno di un coerente processo creativo non venga preferita alla riproposizione dell’usato sicuro, benché ancora affascinante e degno di interesse.

 

Un problema (se così possiamo chiamarlo) che riguarderebbe più o meno tutti i mostri sacri degli ultimi due decenni, dal pulp di Quentin Tarantino all’immaginoso Tim Burton (con la parziale eccezione dei fratelli Coen, che con alterni risultati tentano comunque di allargare gli orizzonti sebbene non dimentichino mai le proprie costanti autoriali). La malizia ci porterebbe a pensare che Anderson, in seguito alle perplessità suscitate dagli ultimi film in molti commentatori, abbia voluto da una parte tornare alle origini della sua poetica e dall’altra aggiornarla portandola in qualche modo all’estremo.

 

Sono dubbi che, però, si disperdono lungo la visione del film. Permangono, certo, emanano costantemente l’odore di qualcosa che si sta per bruciare, ma si dissolvono durante l’ascolto dei bellissimi titoli di coda. Il fatto è che Moonrise Kingdom è un film a cui non si può non volere bene. Specie se a scrivere è uno che è stato scout per tantissimi anni e che conosce bene la natura di fondo di quell’etica rigorosa e svitata allo stesso tempo. Negli Stati Uniti gli scout hanno tutt’altro impatto sociale, sono considerati come dei bonaccioni un po’ sciocchini che vendono torte alle vecchiette e che costruiscono tende su rive di fiumi in piena, e la famosa barzelletta che gira a riguardo (non ripetiamola per l’ennesima volta) è da prendere con ironica nonchalance. Qui gli scout sono rappresentati da una serie di personaggi che potremmo sintetizzare così: l’intraprendente sincero (il protagonista), il buon soldato infantile (il capo truppa), il retorico pomposo (il vecchio capo), la pattuglia gioiosamente immatura e tenace (la truppa).

 

Sono caratteristiche che raffigurano perfettamente gli scout e che ne mettono una luce una componente fondamentale: la bontà. Moonrise Kingdom è un film in cui le dinamiche dei buoni e dei cattivi sono abbastanza evidenti: buoni sono coloro che appoggiano la fuga d’amore del dodicenne Sam e dell’irrequieta Suzy (il malinconico e triste capitano Shard, il capo truppa Ward), cattivi sono coloro che li inseguono come in una grande caccia alla volpe (i signori Bishop – che comunque non si rendono bene conto della situazione, la terribile Servizi Sociali – colpo di genio di sceneggiatura). Ovviamente, chi prima e chi dopo, tutti si adeguano all’amore dei due e la fine lieta dell’intreccio è quanto di più salutare ci si potesse augurare.

 

Il film è ambientato nel 1965 ed è dichiaratamente la storia di un tramonto, gli ultimi fuochi di un’innocenza che di lì a poco si sarebbe persa, travolta dagli eventi di una società troppo rapida per la flemma dei personaggi che abitano l’opera. Per certi versi, in alcuni passaggi è un film di dolcezza struggente: i primi approcci puramente fisici di Sam e Suzy trasmettono una tenerezza indiscutibile ed è difficile non restare coinvolti di fronte alla purezza della necessaria ignoranza di due piccoli adolescenti (che si baciano e si toccano come se scoprissero un mondo sconosciuto).

 

La fuitina dei due tra gli impervi boschi è un’ouverture elegiaca mai dolciastra e mai di cattivo gusto, costantemente leggiadra, onesta e schiettamente coinvolgente (ognuno di noi ha avuto un primo amore e il primo amore, come diceva un simpatico e sottovalutato film di qualche anno fa, sarà sempre lei, nonostante un mondo pieno di ragazze), che è fondamentalmente un bellissimo racconto di formazione. In cui gli adulti non sanno stare sulla stessa lunghezza d’onda dei piccoli (malgrado tentativi più o meno sciocchi, se si escludono certe riflessioni del capitano Sharp), che pensano ai propri piccoli drammi (solitudine, amanti, corna), bevono per annoiata disperazione, s’impongono sui familiari per autoritaria attitudine e parlano con un registratore perché forse nessuno sa ascoltarli. Sceneggiatura perfetta di Anderson e Roman Coppola, immagini meravigliose e mai stucchevoli di Robert Yeoman, musiche fondamentali di Alexandre Desplat e cast fantastico in cui tutti sarebbero da premiare senza esitazioni (con cammeo improvviso di Harvey Keitel).

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