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Vita di Pi

Regia di Ang Lee vedi scheda film

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La recensione su Vita di Pi

di M Valdemar
4 stelle

Vita di Pi, miracoli di Pi, salvezza di Pi.
Pim pum pam.
Esplosivo tripudio di effetti speciali, di facce “vere” (anche quando ricostruite digitalmente), di sontuosi sbalorditivi elementi della natura, di sofferenze patite, di confronti/scontri uomo vs./uguale bestia, di dialoghi con Dio, di ricordi (forse veri forse inventati; forse non importa, ovvio), di parole parole e ancora parole: il verbo di Ang Lee portato all’estrema maestosità, in un’opera monstre, per un pubblico ammaestrato, talmente spettacolare e visivamente affascinante che stufa, estenua, estingue la sana voglia di partecipazione.
Tanta ricchezza, troppa, che finisce col mostrare il fiato corto e la vena esangue. Estetica (retorica) della stupefazione, sempre e comunque, che attinge dalle suggestioni della narrazione per piegarle in onde emozionali che turbinano in una banale tempesta di sentimenti e avvenimenti da restare in apnea. O forse assopiti.
Lo stile - sintesi più che corretta di forma, formula, conformismo - è quello “giusto”: una calcolata e ben dosata mescolanza di istanze riconducibili all’impegno leggero e politicamente corretto e di colori, sapori, umori di un’India (le cui virtù cartolinesche tanto piacciono agli occidentali) che ricorda da vicino un altro fenomeno come The Millionaire. Alla sapida, furbesca mistura Lee aggiunge una supercarica e all’avanguardia espressione di bellezza di immagini e suoni che però giace a mollo nell’acqua (finta) di pixel deflagrati sullo schermo a comporre una sinfonia di files orchestrata da sovraeccitati oscuri creatori di programmi informatici e manovratori di tastiere. A far da contraltare la componente “umana”, quella a cui spetta il compito di far vedere l’”anima”, che però è debole, trascinata dalle correnti inumane della perfezione ossessiva della grafica digital-mistificante e dalla ridondante e pretenziosa ricerca di lirismo e pathos.
Buttando alla rinfusa e senza nessuna volontà di minimo approfondimento temi a sfondo personale, religioso (stucchevole ogni oltre dire), e sui massimi sistemi, sulla natura, sull’uomo e sulla famiglia, il film cerca (cioè è sicuro) di conquistare i favori anche dei più esigenti. Ma ogni elemento è esclusivamente un tassello della rigida configurazione programmatica, dopotutto Vita di Pi è “solo” un blockbuster, seppure spacciato per “autoriale” (il paradosso è evidente tanto quanto le movenze fasulle della tanto reclamizzata tigre).
Finanche i rari momenti onirici, così come quelli drammatici, risultano artefatti e comunque assai poco ispirati (ripassarsi magari il vero “ispiratore” Arthur Gordon Pym …), il che sta a significare il disinteresse per una storia che veleggia sicura e tranquilla verso la meta forte del notevole impatto estetico.
Il continuo alternare presente (l’intervista al sopravvissuto ieratico Pi) e passato (il racconto delle naufragio e successive avventure del giovane sfortunato Pi) è un disinteressato girovagare senza meta, alla deriva, pertanto è fin troppo ovvio il ricorso ad un didascalismo classico ed elementare il cui schema trova la necessaria compiutezza nella potente rappresentazione fatta di illustrazioni perlopiù documentaristiche.
Immagini che talvolta incantano per la (gonfia) magnificenza, altre invece che stupiscono per la modesta fantasia. Il tutto, ad ogni modo, è subordinato alla poderosa inclinazione verso la più pomposa, effettistica progettualità di uno sguardo dedito al mero commercio e intrattenimento. Nulla di così maligno, bontà divina, ma non si spaccino gli artifici per arte, gli occhi umidi e la pioggia digitale per intensità scenica, ed i pesantissimi sermoni religiosi per autentica riflessione sulla spiritualità dell’uomo.
A dirla tutta, molti degli aspetti concernenti le vicende di Pi, a partire dal tanto sbandierato bizzarro nome (lo stesso vale per la tigre, “oggetto” bidimensionale dotato di nome e cognome ma non di linfa vitale), odorano di stantia soluzione aneddotica, e null’altro che le variopinte scaltrezze messe in loco - e prima, sulle pagine del bestseller - possano mellifluamente suggerire.
Nel capiente frullatore multitematico finisce un po’ di tutto, gettato come esca per principianti alla bell’e meglio, e con il preciso ed unico scopo che la valenza simbolica di molti ingredienti (il pi greco, il misticismo diffuso come un puzzolente miscuglio di spezie, gli animali, l’acqua, la materia del creato, le “fatiche” come tappe del percorso di crescita) riesca a rendere lo straripante tessuto espositivo una pregiata (premiata) stoffa d’autore.
Due ore ricolme di eventi, quadri lussureggianti e contemplativi, asserzioni sul trascendente, schizzi introspettivi: l’etichetta, ripetuta come un mantra per il pubblico festante, di "nuovo" Avatar tutto sommato non è così azzardata né casuale.

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