Espandi menu
cerca
E la chiamano estate

Regia di Paolo Franchi vedi scheda film

Recensioni

L'autore

lorebalda

lorebalda

Iscritto dal 5 giugno 2011 Vai al suo profilo
  • Seguaci 151
  • Post -
  • Recensioni 27
  • Playlist 3
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su E la chiamano estate

di lorebalda
6 stelle


Enigma Franchi.

Non è un film facile E la chiamano estate di Paolo Franchi, regista italiano di nicchia. Sembrerà un’esagerazione, ma forse è il film che di recente più mi ha costretto a ripensamenti e revisioni. Inutile negarlo, il film è sbagliato: lo si può guardare cento volte, ma gli errori di Franchi rimangono. Eppure, accanto ad autentiche cadute di gusto e di stile, ne E la chiamano estate ci anche sono spunti interessanti e cose ben fatte, fatto raro nel cinema italiano di oggi.

Alcune premesse. Mi sono avvicinato a E la chiamano estate con grande curiosità. Sono solito seguire con attenzione le vicende cinematografiche sui nostri quotidiani, soprattutto nei periodi in cui si svolgono i festival. Toccava a Roma, avevo letto il programma, sulla carte mi interessavano molto il film di Larry Clark (regista che non amo, ma che trovo comunque stimolante) e – appunto – il film di Franchi. Avevo letto su un quotidiano la trama, già si facevano i paragoni con Shame di Steve McQueen, film che ho amato moltissimo. Dunque, si capisce, mi aspettavo molto.
Il giorno in cui E la chiamano estate è stato presentato, ho letto le reazioni (come sempre esagerate) della nostra critica, il parere di Paolo Mereghetti era totalmente negativo (e di solito il film che si prende una stelletta vale sempre di più di quello che se ne becca tre...). Avevo apprezzato Nessunaqualità agli eroi (anche questo parecchio disprezzato dagli addetti ai lavori), e i giudizi della critica italiana, con la quale mi trovo sempre in disaccordo, promettevano molto.
Appena esce il film, scopro che è proiettato a Firenze. Mi precipito a vederlo...
 
Prima visione. Che delusione. Pensai di aver visto uno dei più brutti film “seri” della mia vita. E che frustrazione: la storia e il tema erano interessanti, potenzialmente incandescenti... C’era tutto per poter vedere finalmente un grande film al cinema. E invece nulla, mi rimaneva soltanto una cocente delusione. Tornato a casa, ho voluto scrivere subito un’opinione. Eccola:
 
--
Sono solito diffidare dei giudizi della critica italiana, soprattutto quando questa concorda nell’esaltare, o distruggere, un film. Nel caso di E la chiamano estate, i fischi, le risate durante la proiezione, le negativissime recensioni mi facevano pensare a ben altri casi cinematografici: Anatomie de l’enfer, Twentynine Palms, Enter The Void… E questo per dire della stima, sicuramente esagerata, che nutrivo nel confronti dell’autore Paolo Franchi: certo un regista non ancora maturato, neanche con l’ottimo Nessuna qualità agli eroi, film tutt’altro che perfetto, ma almeno originale nella tematica e soprattutto molto bravo nelle scelte di mise en scène – pressoché un caso (assieme ai Frammartino e ai Garrone) nel panorama del giovane cinema italiano.
Ma arriviamo al suo ultimo discusso film. E la chiamano estate parte benissimo, fascinoso e dark: i primi quindici minuti sono davvero eccellenti. Il bianco accecante della camera da letto dei protagonisti crea un’atmosfera sospesa, il gesto improvviso di Dino (un buon Jean-Marc Barr) mentre blocca la mano di Anna dà una violenza e uno strappo di tono inaspettati e davvero pregevoli – e subito un intelligente montaggio ci catapulta di fronte a vecchie fotografie, con la voce off di un’amica di Anna che ci racconta del primo incontro fra i due… e poi, un altro repentino stacco di montaggio, ed ecco che Dino, che di mestiere fa l’anestesista, dice alla paziente (e a noi spettatori) di contare fino a cinque, e chiudere gli occhi…
Li riapriamo, noi spettatori, e siamo catapultati in un locale hard, tutto virato in blu, musica tecno ossessiva: un’inquadratura da dietro la testa di Dino che ricorda molto certe immagini di Enter The Void. Qui, inizia il primo girotondo sessuale del film, allucinato, quasi sognato. E si capisce immediatamente il film che Franchi avrebbe voluto fare: una sorta di “doppio sogno” surreale e melodrammatico, perverso e rivelatore, con scansione temporale spezzata e struttura interna liberissima capaci di far rima con la spiraliforme ossessione amorosa del protagonista.
Ambizioni altissime, non v’è dubbio: riflettere sul rapporto di coppia e sulla crisi di un maschile senza certezze mischiando Resnais e il cinema d’autore estremo degli anni Duemila. Non solo però: ché Franchi vuole per il suo film anche un’atmosfera romantica e struggente (non spettacolare: già qui siamo lontanissimi dall’estetica stilizzata ma assolutamente realistica di Shame, a cui il film pure è stato paragonato da alcuni…), e per questo carica oltremisura la fotografia e, in soundtrack, aggiunge note lancinanti, patetiche, che si vorrebbero sublimi, e che dovrebbero suggerirci le infinite trasformazioni interiori dei tormentati protagonisti…
Ma queste idee, e questa dichiarazione evidente di poetica, non salvano un film che, dopo venti minuti, sbaglia molto, pur rimanendo interessante. I problemi maggiori? Il dolore di Dino, la sua via crucis, non viene mai fuori; i giochi temporali e di luce danno al film un’estetica modaiola e, sorpresa, molto televisiva; Isabella Ferrari (assolutamente fuori parte) si consegna indifesa allo scherno dello spettatore in una interpretazione francamente ridicola. L’unica sofferenza vera che si avverte in platea è quella dello spettatore che, amante di certo cinema d’autore, vede tanto potenziale buttato via, sprecato – e tutto questo a causa di scelte registiche scriteriate, sinceramente imbarazzanti.
Dai quotidiani sembrava che i problemi riguardassero l’astrusità della trama, la radicalità delle invenzioni visive, la sospensione del ritmo. Fosse stato così, il film di Franchi sarebbe stato sicuramente più interessante. Invece, il suo film si capisce troppo bene, ed è fin troppo “veloce”. Ma è soprattutto esteticamente che E la chiamano estate non si costruisce mai: Franchi voleva forse fare una parodia del cinema romantico italiano tanto in voga in questi anni? Ne dubito.
In conclusione, c’è poco da salvare in questa sfortunata E la chiamano estate: oltre ai primi quindici minuti, sono interessanti l’apparizione di un azzeccato Luca Argentero, alcune inquadrature attonite, allucinate, come quando la mdp passa sui corpi sfiniti dagli amplessi, oppure la sequenza in cui Dino picchia l’amico del locale hard che ha osato provocarlo su Anna (qui Franchi immerge il suo protagonista nell’oscurità, e poi lo segue con la mdp appiccicata alla sua faccia, tremante, instabile – con più di un’eco del cinema di Grandrieux). In questi momenti la delusione dello spettatore diventa ancora più netta, insostenibile – anche perché certe volute visive sono interessanti. Ma tutto il resto è da dimenticare, subito. È da dimenticare la sottostoria che vede coinvolta la Ferrari (certi ralenti sono davvero inguardabili). È da dimenticare il finale, uno dei peggiori che mi sia capitato di vedere recentemente. È da dimenticare il tono enfatico, fasullo, di quasi tutto il film.
Alla fine non rimane che una sola speranza: che Franchi sia più lucido di certi giurati di festival (inter)nazionali e che, aldilà delle orgogliose dichiarazioni di facciata, sia capace di un importante atto di umiltà: si riconsideri, rimettendosi in discussione. Lo faccia per se stesso, prima che per noi spettatori. --

Un’opinione durissima, dettata dalla delusione del momento, e che in effetti non sembra lasciare margini ad eventuali ripensamenti.

Visioni successive. Passa molto tempo, ripenso al film, e sento che qualcosa è cambiato. Non so bene che cosa: sarà l’incipit del film, che avevo trovato davvero bello, sarà il tema inconsueto, ma ho già voglia di rivedere E la chiamano estate, di cambiare idea.
Leggo la bella opinione di @Snaporaz68 e spinto dal suo giudizio positivo riguardo il film: ma ancora non sono convinto. Dopo due settimane, leggo anche l’opinione di @OGM, riguardo E la chiamano estate una terza volta, ed è quella “giusta”. Ci sono cose belle e cose brutte, nel film di Franchi. Non tutto è da buttare. Ad esempio, sono da salvare l’interpretazione di Barr, notevole, e l’intuizione di una narrazione a spirale, frammentata e tormentata, giocata sulla ripetizione di dialoghi e situazioni. E anche l’uso di vari formati visivi è un’idea intelligente, inconsueta.
Cose belle di E la chiamano estate: l’inizio (l’inquadratura del riflesso lunare che danza sulle acque scure del mare), il primo girotondo sessuale (allucinato, con quel blu così espressivo, un doppio sogno davvero), il Beethoven nella scena della doccia. Cose brutte, bruttissime: Isabella Ferrari, assolutamente fuori parte, in una recitazione che si vorrebbe attonita, senza salvagente, impalpabile e carnale in ugual misura e che invece mi sembra solo ridicola, incerta e superficiale, e soprattutto priva di mistero; i dialoghi (certo, anche l’immagine non è sempre cruda o espressiva come dovrebbe, ma la parte scritta del film è davvero inadatta). Cose belle brutte: il personaggio deja vu ma credibile di Filippo Nigro (ottimo), le musiche onnipresenti di Philippe Sarde, la mise en scène (Franchi tenta una strada davvero personale e rischiosa, e non ripete il rigore hanekiano del film precedente), il finale spudorato, enfatico e ridicolo, assolutamente sincero, toccante.
Rileggo allora la mia precedente opinione, e scopro che il mio giudizio è cambiato…

Conclusione provvisoria. E la chiamano estate ha il merito di far discutere, e (a differenza di quanto scrivevo dopo una prima visione) un’idea consapevole di cinema che lo sorregge.
Il tema che affronta Franchi non è certo nuovissimo: pertanto il paragone con altri autori è obbligato. Su un argomento simile, McQueen ha scelto l’ellissi. La Breillat, che da sempre fa film filosofici sulla sessualità, ha optato invece per il monologo interiore, dialoghi assurdamente saggistici, con un effetto che si fa straniante e potente in contrasto con la cruda violenza pittorica delle immagini. Franchi ha avuto il coraggio di intraprendere la strada indicata dagli autori radicali (e gli omaggi visivi al francese Philippe Grandrieux si sprecano), ma con metodi ed idee personali, anche se con risultati poco convincenti. Ha realizzato un film italiano (come Reality di Garrone, e questo nonostante le differenze fra i due siano più che palesi), formalmente complesso e consapevole (in particolare è significativo l’uso simbolico dei colori – il blu, il rosso e il nero), attraversato da un dolore autentico, e da uno straziante senso di nostalgia, di rimpianto. Alcuni difetti risultano addirittura funzionali a questo film psicanaliticamente complesso. Ad esempio, il rischio di moralizzare la vicenda attraverso l’uso delle voci fuoricampo c’è, e non sempre viene evitato: eppure questo contrasto ben si adatta al film, che ad un certo punto si avvolge su se stesso e diventa tutt’uno col protagonista – giocandosi così tutte le sue carte. Il risultato finale è una sconfitta di Franchi, ma non una disfatta: il regista ha perso per pochissimo.
E la chiamano estate sarà pure un film sbagliato, ma è generoso. Osa. Lo premio volentieri con un voto sufficiente.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati